Le grandi lezioni dell’Ottobre bolscevico Pt. 1
Quando all’inizio di Stato e Rivoluzione, Lenin scriveva: « Accade oggi alla dottrina di Marx quello che è spesso accaduto nella storia alle dottrine dei pensatori rivoluzionari e dei capi delle classi oppresse in lotta per la loro liberazione. Le classi oppressive hanno sempre ricompensato i grandi rivoluzionari, durante la loro vita, con incessanti persecuzioni; la loro dottrina è sempre stata accolta col più selvaggio furore, con l’odio più accanito, e con le più impudenti campagne di menzogne e di diffamazioni. Dopo morti, si cerca di trasformarli in icone inoffensive, di canonizzarli, per così dire, di cingere di una certa aureola di gloria il loro nome, a «consolazione» e mortificazione delle classi oppresse, mentre si svuota del contenuto la loro dottrina rivoluzionaria, se ne smussa la punta, la si avvilisce», Lenin non immaginava certo che appunto questo «destino» sarebbe stato riservato al pensiero «suo» come di Marx e di Engels e, più ancora, al fulgido Ottobre Rosso al quale il suo «nome» doveva, poco dopo, indissolubilmente legarsi.
Come mute di belve inferocite, gli eserciti della borghesia internazionale si avventarono allora contro la dittatura comunista in Russia, focolare minaccioso di quella rivoluzione proletaria mondiale di cui essa si proclamava il primo baluardo e la «fiaccola», e dalle cui sorti mai avrebbe concepito d’essere separata; per anni i numi tutelari del Capitale tirarono tutt’intorno ai «confini» della polveriera rossa di Pietrogrado il cordone sanitario dell’intervento armato e della controffensiva politica. Nulla la controrivoluzione borghese lasciò allora di intentato per impedire che il «contenuto» dell’Ottobre, la sua «anima rivoluzionaria», debordassero nelle cittadelle dell’Occidente capitalistico e le travolgessero nel loro incendio distruttore; dove non bastavano (e non bastarono!) le armi, si mobilitò l’artiglieria pesante della menzogna e della diffamazione; quando neppure essa fu sufficiente, si lanciarono all’assalto, dietro il suo fuoco di sbarramento, le servili pattuglie dell’opportunismo. Non a caso; la borghesia per prima sapeva che l’Ottobre significava un esempio vivente, una clamorosa «lezione»: sapeva che esso non era un fatto locale e nazionale; che laggiù si era spezzato un anello dell’unica, solidale catena del suo dominio sul pianeta. Oggi, per la borghesia di tutti i paesi, sepolti nell’oblio i patemi d’animo di 50 anni fa, Ottobre è passato alla storia; è un pezzo da museo, un corpo che ha ucciso la sua «anima», una spada che ha smussato la sua «punta». Nulla vieta di commemorarlo: E’ MORTO.
O così si crede.
Possono impunemente cantarne le lodi gli eredi e i successori degli avversari più accaniti del bolscevismo in anni lontani; possono impunemente commemorarlo gli eredi e i successori di quello stalinismo che bene iniziò la sua carriera mummificando Lenin, ed eternandone il «nome» dopo di avere adulterato il «contenuto» della sua dottrina. Non diversi dai dirigenti delle classiche potenze borghesi, anch’essi hanno archiviato l’Ottobre; non più crocevia nella tormentata storia mondiale delle lotte di classe, ma giorno di nascita del moderno Stato di tutte le Russie; non più fiaccola e bandiera della rivoluzione mondiale proletaria, ma lume ed insegna di interessi nazionali; non patrimonio di proletari al disopra di qualunque confine, ma capitale accumulato da mercanti in ben munite frontiere; non insegnamento per le generazioni nuove della classe oppressa, ma catechismo per i banchi di scuola e di chiesa dei giovani leoni di una patria fra le innumerevoli patrie di cui la terra si fregia. Per essi, sono russe e soltanto russe le origini di Ottobre; sono e non possono essere che russe le sue filiazioni. È stato, cinquant’anni fa; al suo mausoleo si va per ammirare e dormirci sopra, non per ricordare ed apprendere. Pace all’anima sua.
Per Lenin, nel 1918: «La rivoluzione russa non è che un esempio, non è che un primo passo in una serie di rivoluzioni». E nel 1919: «In sostanza, la rivoluzione russa era una prova generale … della rivoluzione proletaria mondiale». Per la banda di mistificatori dal cui arido cervello «collegiale» sono uscite la «Tesi per il 50° della grande Rivoluzione socialista di Ottobre», questa non è un anello di una catena mondiale di rivoluzioni precedenti e successive: è un’eccezione alla regola, un fenomeno storico unico e irripetibile, che non ha radici nello scontro mondiale fra le classi e di cui per la stessa ragione l’archivista-contabile di turno può dire, con gelido distacco, che «ha esercitato una profondissima influenza su tutto il successivo corso della storia mondiale» (la storia mondiale, si noti, non la storia delle classi; la storia di tutti, pretaglia e sbirraglia comprese), come di un sasso staccatosi dalla montagna si dice che ne ha messo in moto altri, meccanicamente, per forza d’inerzia, senza tracciar loro alcuna direzione – «liberi» ciascuno di seguire la propria strada … nazionale, esclusiva e inevitabile, verso una meta che non si conosce, perché è scaturita dalle misteriose viscere del genio patrio, o della non meno patria storia, con le sue tradizioni e il Pantheon dei suoi numi tutelari. Archiviato nelle sue radici, archiviato nel suo valore di patrimonio collettivo di una sola classe, archiviato nelle sue prospettive supernazionali, l’Ottobre è ucciso. O così si crede. Ma basterebbero quelle due frasi di Lenin per ricordare che non così combatterono, e non così commemorarono di anno in unno, la gigantesca battaglia di Ottobre i marxisti, non così la sentirono i bolscevichi. Il marxismo non sarebbe – come si ripete fino alla noia, e capovolgendo il senso della formula – una «guida all’azione», se non fosse una visione generale e completa del corso del moto di emancipazione della classe operaia (« i proletari non hanno patria»; a maggior ragione non ha patria il loro programma) e se, nei grandi svolti in cui le classi incrociano le armi in uno scontro che ha nome «o il combattimento o la morte», non cercasse la verifica delle sue previsioni, traendo dai fatti la spinta non a rivederle ma a rivestirle di carne e di muscoli, a scolpirle in più aspro rilievo, a renderle – per la forza persuasiva delle cose – irrevocabili. Nel 1848-9 e nel 1871, Marx ed Engels affilano le armi della critica al vivo contatto delle battaglie di classe: il loro bilancio non riguarda il proletariato francese o tedesco, ma il proletariato di tutto il mondo. Lenin in Stato e Rivoluzione si rifà a quelle smaglianti verifiche della dottrina avendo davanti agli occhi una Pietrogrado che è, nello stesso tempo, una Parigi, una Londra e una Berlino. Di più, allora come in tutto il periodo dal 1905 al 1917, antivede la traduzione, nei fatti viventi di una storia non soltanto russa, del grandioso tracciato 1850 dell’Indirizzo del Comitato Centrale della Lega dei Comunisti – questo 1917 avanti lettera, se visto sullo sfondo di un’avvenuta accelerazione dei «tempi» storici – così come Trotzki ne riprende il grido: La rivoluzione in permanenza! Sempre, nel tempestoso arco di un secolo e mezzo di assalti al cielo e di ricadute negli inferi, i marxisti hanno cercato negli uni e nelle altre, esaltando quelli e maledicendo queste, la conferma definitiva di una dottrina e di un programma universali. Hanno sempre attinto la certezza di un futuro: mai commemorato (che è un altro modo di archiviare) un evento passato.
Credano gli uni che l’Ottobre sia morto; credano gli altri di averlo ucciso. Il proletariato rivoluzionario mondiale deve riscoprirlo, per buttarlo in faccia ad entrambi.
Un filo ininterrotto, e mondiale
In quei primi capitoli dell’Estremismo che furono scritti per ricordare ai comunisti di tutti i paesi i tratti d’importanza internazionale della rivoluzione di Ottobre (intendendosi per importanza internazionale, «nel senso più stretto della parola», «la portata internazionale o l’inevitabilità storica della ripetizione su scala internazionale di ciò che accadde da noi», Lenin indica «una delle condizioni principali del successo dei bolscevichi» nel fatto di aver dovuto cercare fuori dai limiti nazionali della Russia una teoria «provata dall’esperienza mondiale di tutto il secolo decimonono» e ulteriormente confermata «dall’esperienza dei brancolamenti, dei tentennamenti, degli errori e delle delusioni del pensiero rivoluzionario in Russia», esattamente come Marx ed Engels, non a caso «esuli» anch’essi secondo l’anagrafe borghese, ne avevano visto la conferma nei brancolamenti e nei tentennamenti del socialismo piccolo-borghese nelle grandi battaglie del ’48 o degli anni precedenti il ’71. Essi che, secondo il programma del Che fare?, si proponevano di importare il marxismo nella classe lavoratrice russa, l’avevano a loro volta importato dall’Occidente delle tempestose battaglie proletarie e della loro gigantesca teorizzazione; non avevano chiesto ispirazione alle arcane profondità del genio slavo, come i panslavisti, o al «modello» nazionale del mir, come i narodniki, ma alla limpida luce di una dottrina nata d’un blocco solo insieme con la classe dei lavoratori salariati, e divenuta nella lotta sangue del suo sangue. Si nutrirono al seno non delle «particolarità specifiche» di quella che oggi si direbbe un’«area sottosviluppata» del mondo, ma – se ci è permesso dire – delle «particolarità specifiche», mondiali (estreme, non infime), dei paesi a capitalismo più evoluto. Non pretesero di scoprire qualcosa di nuovo; vollero leggere nel libro già aperto di mezzo secolo di lotte di classe e di marxismo. In questo libro, la loro via era già segnata; la loro gloria – il loro vanto di militanti che sdegnarono sempre di rivendicare «meriti particolari» a sé e alla «loro» classe operaia (Lenin, 4 giugno 1918: «La rivoluzione russa non costituisce affatto un merito particolare del proletariato russo») – è di aver tenuto fede, talmudicamente come si dice oggi, «dogmaticamente» come si diceva nel 1903 a quella via.
Nel marxismo, i destini rivoluzionari (o controrivoluzionari: i due termini sono dialetticamente inscindibili) della Russia, campeggiano come gli elementi di un quadro che, dal Manifesto, è per definizione mondiale. L’ombra della Russia zarista, riserva della controrivoluzione europea, pesa sulle prospettive rivoluzionarie del ’48 europeo: non è la remota terra dei Sarmati della pubblicistica borghese, è un attore – il «ribaldo» – inseparabile dallo snodamento del dramma sociale non meno dell’Austria di Metternich. La rivoluzione europea non vincerà se esso non sarà vinto. Dopo il ’60, la prospettiva cambia di segno, ma resta europea, il che, per Marx ed Engels, è quanto dire mondiale: la rivoluzione russa che si annunzia «avrà un’importanza enorme per tutta l’Europa, non foss’altro perché abbatterà d’un sol colpo l’estrema e finora intatta riserva della reazione paneuropea a e, a sua volta, potrà dar luogo al salto dall’«antichissima proprietà comune del suolo … alla forma comunistica superiore di possesso collettivo della terra» se diverrà il segnale di una rivoluzione proletaria in Occidente, in modo che le due rivoluzioni si completino a vicenda» (Marx, 21-1-1882). Negli anni ’90, tramontata quella possibilità condizionale, entrata la Russia nel girone dell’inferno capitalistico, ancora una volta la rivoluzione antifeudale e antizarista è salutata come quella che, strappando i contadini «all’isolamento dei loro villaggi, che formano il loro universo» (occorre dire che ogni patria, marxisticamente, è un mir, un universo nel quale gli sfruttati sono chiusi in un’avvilente e deformante solitudine?) e spingendoli «sul grande palcoscenico dove impareranno a conoscere il mondo esterno e quindi anche se stessi», darà nel contempo «al movimento operaio occidentale un nuovo impulso e nuove e migliori condizioni di lotta e, per ciò stesso, affretterà quella vittoria del proletariato industriale moderno SENZA LA QUALE LA RUSSIA D’OGGI NON PUO’ USCIRE NE’ DALLA COMUNE NE’ DAL CAPITALISMO PER DIRIGERSI VERSO UNA TRASFORMAZIONE SOCIALISTA! (Engels, 1894).
È proprio qui che la storia del bolscevismo si salda, dalla sua date di nascita, alla tradizione mondiale del marxismo: nelle parole di Engels è già la visione del 1905 e del 1917; è, anzi, già la visione della possibile controrivoluzione del 1926. Se noi, a nostra volta, dovessimo indicare la prima lezione dell’ottobre – nella sua luce come nelle sue ombre successive –, la indicheremmo appunto nella ferrea continuità che il Partito stabilì non nel 1917, ma più di vent’anni prima, con le storiche battaglie del proletariato occidentale nei paesi di capitalismo pieno e maturo, con la dottrina generale e con il programma in cui il bilancio preventivo e consuntivo di quelle stesse lotte si condensa. Non c’è mai stata vittoria della classe operaia, né ci sarà senza questo filo ininterrotto che vede il 1917 con gli occhi del 1848, del 1871 o del 1894, e l’anno x del futuro con gli occhi delle tappe, gloriose nella dottrina e nella prassi, del passato e di tutte i paesi.