La concorde regia dell'infessimento elettorale
Le risorse della tecnica moderna, come in ogni settore (parola di moda) consentono agli stolti di gonfiare le gote, così mettono sempre più a mal partito quelli che da tempo lunghissimo hanno denunziato lo schifo della tribuna elettorale. Fu difficile mostrare che era negativo il bilancio della «utilizzazione» che di tal mezzo consentiva il potere di classe della borghesia, quando la diffusione si limitava ai giornali di ogni colore; poi è venuta la radio che con la sua voce entra in tutte le case, poi la televisione che consente di udire e al tempo stesso di vedere la faccia dell’oratore.
Si disse un tempo; se non utile il parlamento, lo può essere il comizio che non è lecito impedire, per la nostra propaganda. Quindi se non alla Camera e assemblee minori, andiamo ai comizi. Anche qui la tecnica è seducente e progressiva; ieri un tavolaccio o una botte e sopra uno con buoni polmoni; poi una rete di altoparlanti in circuito da cui può tuonare anche una mezza pugnetta; infine l’ultima parola, il video da cui si parla a decine di milioni di teleauditori. Non se ne sentono i fischi o gli applausi, è vero, e non si può venire a botte, ma con l’ultima trovata si è voluto far rivivere il classico, italiano, contradittorio, con la parola all’avversario; il buon contradittorio alla romagnola (roba per Nenni, non per oratori da televisione e da frigorifero come Togliatti, vero arnese elettrodomestico per la politica, quali quelli che Krusciov si è comprato in America). In quei contradittori non prevaleva solo la sicurezza all’impronto, e il fiato, dell’oratore e del contradittore, ma il vigore delle squadre giovanili che lottando tra loro facevano navigare la rischiosa bigoncia sul mare della folla ululante e cazzottante.
La nuova edizione da salotto della guerra elettorale non fa che aumentare il nostro schifo per essa.
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Tuttavia è a favore di Palmiro che qui interveniamo, tra gli ululati e gli schiamazzi di tutta la stampa italiana perchè si sarebbe fatto, cosa che se non in Piemonte sarebbe in Romagna la vergogna estrema, «mettere nel sacco».
Non ci curiamo della polemica sulla alleanza elettorale tra comunisti e fascisti in Sicilia ed altrove, giusta botta tirata nel momento che si proclama che bisogna battere la democrazia cristiana solo perchè i fascisti la appoggiano in combutte elettorali. Né ci importa la pietosa e penosa difesa dell’Unità contro i «falsi». I togliattiani ammettono di avere in Sicilia fatto blocco con fascisti e monarchici, ma con gruppi di dissidenti dalle centrali romane, e in nome della autonomia regionale. Questo non si chiamerebbe blocco col MSI, ma «frantumazione» del MSI, come il blocco col democristiano Milazzo non fu blocco, ma «frantumazione» della democrazia cristiana. Elegante tesi della prova di castità, per l’accusato di oltraggio al pudore: io non fornicavo, io…frantumavo!
Nossignore; noi consideriamo solo sballato lo stupore dei benpensanti per l’ultima replica finale del Palmiro al giornalista Ghirardo, che voleva sapere se in Italia, una volta al potere i comunisti, e quindi al potere anche nella RAI-TV, gli oppositori avranno il diritto di organizzarsi in partito, di votare e di parlare alla Televisione. E se no, come si spiega che nei paesi «comunisti» gli oppositori non lo possono fare?
Palmiro non aveva il dovere di rispondere che la domanda è posta male perchè quei paesi non sono comunisti per il solo fatto di non ammettere pluripartitismo, e che non lo sarebbe l’Italia sotto un ministero Nenni-Togliatti, con uno, due o dieci partiti, perchè in quelle due situazioni si è – e si sarebbe – in regime tanto capitalista quanto oggi in Italia.
Egli ha risposto con tutta fedeltà alle sue opinioni in materia di filosofia politica quali le professa da più di un quarantennio.
Siamo qui ad attestargli che non merita di essere chiamato duplice, reticente, anfibologico (come ha fatto qualche giornale) e nemmeno versipelle e voltabandiera.
La risposta di Palmiro tiene della sapienza e della saggezza alla quale dovrebbero fare omaggio tutti gli uomini della politica ufficiale in Italia e fuori.
Le regole dello sviluppo storico non si possono dare in modo generale per tutti i luoghi e per tutti i tempi, egli ha detto. Questo lo pensano, precisiamo noi, solo quei fessi di marxisti dogmatici ormai scomparsi salvo questo foglio.
Che c’entrano la Russia e la Cina? La sorte di ogni paese e la prognosi dei suoi sviluppi, va chiesta al «moderno» pensiero storicistico che non è più astratto e universalizzante, ma locale e «concretistico». Ecco che la lingua batte dove il dente duole. Ecco che Palmiro non ha cercato una sfuggita di comodo per una domanda imbarazzante che lo aveva sconcertato, ma risposto secondo la sua aperta e leale opinione.
In Russia e in Cina ci sono stati lo zarismo e i giapponesi… ma pare che sia mancato il pensiero storicistico. In Italia, è vero che ci sono stati i fascisti e i tedeschi, ma concretisticamente gli effetti sono opposti, perchè noi abbiamo avuto il pensiero storico (che Lenin fece la fesseria di copiare da Marx, materialista vile) dei nominati Vico, Carlo Cattaneo, Gramsci e Antonio Labriola! Ecco i maestri di Palmiro ed il suo credo. Ha solo scordato di citare Croce. Avendo tali uomini, siamo stati preparati al felice destino di avere in perpetuo una democrazia «pluripartitistica».
Egli ha sempre creduto in questo grandi nomi della filosofia idealistica, ed ha avuto sempre fiducia nel metodo concreto di spiegare la storia.
Nel 1919 quando apparve l’ Ordine Nuovo a Torino col suo articolo programma, che girava tutto attorno alla parola «concreto», pure facendo adesione alle idee della rivoluzione russa, il giornale della frazione comunista astensionista, il Soviet, ammoniva il confratello che dietro quell’aggettivo si celavano tutte le insidie del riformismo e dell’opportunismo socialista.
Palmiro non ha mai lasciato quella bandiera. Dove eravamo concretamente?
A Roma, e non a Mosca o a Pechino. Ma che Roma? A Torino, anzi nella azienda FIAT, nella quale si comincerà col consiglio dei commissari di reparto a fondare un comunismo non astratto, ohibò! Siamo sulla linea delle autonomie regionali; purtroppo la formola del caso per caso e del contingentismo ha avuto immensi successi, ma non avrà quello di rendere autonoma l’Italia proletaria dalla Fiat piemontese e sabauda, stile che appesta tutti i settori da un secolo.
Ben evocato Carlo Cattaneo, fautore della repubblica federalista! Erano quegli astrattisti della storia che si chiamavano Marx ed Engels a tenere, dopo avere a dovere strigliato Mazzini ed ogni repubblicanesimo borghese, come quello della nostra TV di oggi, per la repubblica una ed indivisibile, tedesca, italiana e domani Europea e mondiale, o localisti concreti e sapienti!
Comunque non vi è un briciolo di malafede nella promessa di Togliatti, o signori gazzettieri d’Italia. Quando egli andrà con Nenni al potere, tutto sarà come oggi, colla opposizione, i partitelli, la radio-TV, il Vaticano, gli intrallazzi e tutto il resto, e vi sarà (di concreto) solo che si tratterà di edizioni peggiorate e degeneri.
Inoltre siete dei fessi. Sparlando di Togliatti gli volete togliere dei voti di borghesucci antidittatoriali, poniamo alcune centinaia di migliaia. Ma lavorate a conservargli con le vostre etichette di abilissimo preparatore di dittature monopartitiche a sorpresa, i milioni dei voti dei proletari che cominciano ad essere tentati di fare della scheda l’uso appropriato.
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Dunque Palmiro non è stato convinto di slealtà né battuto in abilità.
Vi è di più. La commedia televisiva è la prova dell’accordo di tutti nel fine comune di coglionare il cittadino elettorale.
Questo crede che lassù si improvvisi come nelle piazze di Romagna, e si eccita alle pretese botte portate a segno, e al contradittore che è messo groggy da colpi efficaci.
Ma il potere capitalista ovunque dominante non lascia sfuggire questi mezzi diabolici dalle mani dello Stato. Sullo schermo come sul video tutto è scritto prima. La burocrazia di controllo ha nelle mani tutti i testi, le dichiarazioni, i quesiti e le risposte che i contendenti e commedianti si sono preventivamente comunicati e scambiati. Le risposte sono preparate da prima. Commedia, regia! Tale la democrazia che bandite voi governanti, e promettono gli oppositori. Siete infatti gli uni e gli altri per la democrazia, la cui formola (ci stava per scappare concreta!) è che la consorteria degli esperti e specialisti, politicanti e giornalisti, lavora concorde a fare fesso tutto il resto, profano e laico, del paese e della umanità. L’uomo, in quest’epoca di letame, gode in una vellicazione erotica passiva ad essere fatto fesso, purché in modo tecnicamente moderno e progressivo. E con salute! Alle urne!
Commissioni interne e sindacati aziendali
Da qualche mese una grossa polemica è in corso fra le maggiori organizzazioni sindacali. La CISL chiede alla Confindustria la revisione dell’accordo istitutivo delle C. I. dell’ 8 maggio 1953, per ridurre u compiti di questi organismi o addirittura liquidarli, sostituendoli o affiancandoli con sindacati d’azienda; la CGIL non solo si oppone alla revisione proposta dalla CISL ma invoca il riconoscimento giuridico dell’accordo interconfederale in modo che le C. I. vengano istituite anche nelle aziende in cui tuttora mancano (e sono molte: a Milano, su 2135 aziende con più di 40 dipendenti, solo 696 hanno la C. I.), mentre circa le sezioni sindacali d’azienda è sulle stesse posizioni della CISL, cioè chiede al padronato di riconoscere questo nuovo ”strumento” sindacale.
La riforma delle strutture organizzative sindacali non è certo fine a se stessa. Essa costituisce un punto d’approdo della politica sindacale delle grandi confederazioni, maneggiate come enormi macchine elettorali dai partiti che le dirigono. Naturalmente per i bonzi di tutti i colori, la politica seguita da sindacati è politica di classe, con la sola differenza che il ”classismo” della CISL si attua indebolendo o eliminando le C. I., е quello della CGIL rinforzandole ed estendendone le competenze. Secondo la confederazione bianca, la presenza di due organismi nella stessa fabbrica genera interferenze ingombranti, sovrapposizioni negative, effetti dannosi; secondo la CGIL, le C. I. sono insostituibili per assicurare il rispetto dei contratti e delle leggi, e le sezioni sindacali di fabbrica sono necessarie per la rivendicazione di nuovi accordi aziendali integrativi di quelli stipulati a ” livello d’industria”. Non riporteremo tutti i termini e i cavillı della polemica in corso. Basti rilevare che, mentre (a parole) entrambe le confederazioni pretendono di voler fare sempre più e meglio una politica di classe, le reciproche accuse di aziendismo circa la funzione delle C. I. vengono tardivamente a confermare il giudizio negativo da noi sempre formulato nei riguardi di questo ”istituto” e, pertanto, suonano condanna aperta della politica sindacale degli organizzatori ”operai” bianchi e rosa.
Ha ragione la CISL di dire (guarda un po’ da chi viene la predica!) che le C. I. hanno posto in sott’ordine i sindacati (nelle grandi imprese, contro 1’80-90 per cento di adesioni alle elezioni delle C. I., sta il 30 per cento di iscritti ai sindacati) o, in parole povere, hanno avuto l’effetto di avvilire lo stimolo associativo derivante dall’istinto di classe, che naturalmente porta ogni lavoratore a stabilire legami attivi con tutti quelli di ogni altra azienda, categoria e paese. Ma se questa premessa è giusta, falsa è la conclusione che ne trae la CISL rivendicando il sindacato d’azienda. A che cosa si riduce, infatti, la ”sindacalizzazione” così realizzata? Nel migliore dei casi, a una beffa pura e semplice, perché il classismo e ” la forza con la unità del movimento organizzato dei lavoratori” se ne vanno a farsi benedire, e non ne resta che una vuota e ipocrita demagogia. Sì, potremmo veder aumentare le tessere sindacali, ma queste varrebbero ancor meno delle poche odierne perchè prese dietro lusinghe corruttrici, o sotto più o meno tacite intimidazioni.
Che dire della CGIL? Essa, se riuscirà a conferire validità erga omnes all’accordo interconfederale istitutivo delle C. I. (come agli altri contratti collettivi che stabiliscono i salari minimi delle varie categorie), avrà fatto delle C. I. un organo con vere e proprie funzioni statali, del tutto simili a quelle dell’Ispettorato del lavoro. Secondo i dirigenti della CGIL, abituati a badare ai ”fatti concreti” e non alle ”formule”, ciò non deve scandalizzare nessuno né provocare la minima perplessità. Quanto al sindacato di fabbrica, le ragioni che lo giustificano sempre secondo i bonzi sono prima di tutto d’ordine economico. La contrattazione a livello d’industria essi dicono andava bene per l’immediato dopoguerra, quando si trattava di difendere in generale il tenor di vita delle masse, minacciato dall’inflazione; ma, con l’odierna stabilità economica e finanziaria, occorre tener conto delle diverse condizioni di lavoro e di produttività regnanti nelle singole aziende, e perciò « adeguarsi» nel senso di articolare le rivendicazioni e le iniziative sindacali. Inoltre, la presenza del sindacato nell’azienda risponde alla parola d’ordine dell’ultimo congresso della CGIL: ” realizzare compiutamente la Costituzione”. Ma il sindacato non deve sostituire la C. I., bensì affiancarla.
”Nell’ambito di loro competenza – l’azienda – ed entro i confini fissati dall’accordo istitutivo, le C.I. sono naturalmente organi di collaborazione. Non è forse così? Ora, sostituite alla C. I. il sindacato (non importa quale); affidate al Sindacato le funzioni attualmente riconosciute e definite alla C. I.; collegate fra loro questi organismi sindacali aziendali sul piano di categoria o anche solo di settore; cosa avrete ottenuto? Un sindacato corporativo e collaborazionista ».
Così si legge nel n. 41 del ”Lavoro” il settimanale della CGIL.
Il ragionamento è giusto; ma, da una premessa esatta, la CGIL deriva, per bocca dell’articolista, una conclusione altrettanto fasulla sostenendo che la semplice sostituzione del sindacato alle C. I. (come vorrebbe la CISL) porta a degenerare il sindacato stesso, mentre il pericolo non sussiste più se il sindacato si introduce nell’azienda senza eliminare la commissione interna. Come e perchè? Nessuno lo spiega, ma è chiaro che, per lor signori, la ragione si trova nelle ”virtù intrinseche” di un sindacato il quale, essendo « di classe», è per natura incorruttibile, e non diverrà mai collaborazionista, La CGIL, che diamine, non è una Trade Union!
Strani ”concretisti” ! Essi spregiano le ”formule”; ma, per risolvere la questione, eccoli rifugiarsi proprio nella ”formula”, nella ”definizione”, nello « schema », che astrattamente danno del proprio sindacato. E’ un comodo gioco di prestigio, ma che non inganna nessuno. Se fosse vero che la CGIL è un ”organo di classe” e che le lotte di recente promosse da questa confederazione rispondevano a considerazioni e direttive di classe, era una ragione di più per difendere un simile ”patrimonio” dai pericoli di infezione opportunistica necessariamente derivanti dal rinchiudere il sindacato nell’orizzonte angusto della fabbrica. L’aziendismo è un altro aspetto dell’opportunismo: costituite il sindacato di azienda, come se non bastasse la commissione interna, e avrete non uno ma due ”organi di collaborazione” anche a prescindere dal carattere opportunista del sindacato nazionale.
La « svolta di qualità » che matura in seno al movimento sindacale non è dunque un passo avanti, è un ulteriore passo indietro. La CISL chiedendo di sostituire nelle fabbriche il sindacato alle C. I., e la CGIL rivendicando il sindacato nella fabbrica insieme con le C. I., perseguono una comune роlitica del più smaccato aziendismo. Pretendere che si tratti di una politica classista solo perchè il padrone osteggia il sindacato di azienda è demagogico: il padrone osteggia perfino le ultracollaborazioniste C. I., la sua vocazione essendo quella della dittatura più completa del capitale sul lavoro, e, il giorno in cui la Confindustria accettasse i sindacati nella fabbrica con o senza C. I. -, la natura di questi organismi diverrebbe identica a a quella delle commissioni interne: non sarebbero uno ”strumento di potere operaio” ma un nuovo organo di collaborazione ufficiale.
Il testo di Lenin “Estremismo, malattia d’infanzia del comunismo” condanna dei futuri rinnegati Pt.5
La formazione rivoluzionaria
Lenin nel suo terzo capitolo dà una rapida storia degli sviluppi che consentirono al partito bolscevico di indirizzare la sua azione sulla via delle energie rivoluzionarie. Uno sguardo altrettanto rapido a questo scorcio permette di smentire la solita leggenda, che cioè gli avvenimenti e la febbre delle masse avessero svelata al partito una strada inattesa, e fornito per la prima volta una chiave della storia rivoluzionaria che prima era ignorata, e dal momento della vittoria in poi potesse essere impugnata in tutti gli altri paesi. Disgraziatamente l’opportunismo militante ha già disertata questa posizione per assumerne una ben più vile, e cioè che si debba considerare come idoletti il nome di Lenin e del bolscevismo e la tradizione di Ottobre, ma che non si debba più annunziare agli altri paesi lo stesso verbo, che in Russia si sarebbe allora per la prima volta rivelato.
Il lavoro di Lenin sembra scritto per rispondere a una simile contraffazione. La vera ragione per cui le linee essenziali dello sviluppo che condusse al vittorioso Ottobre del 1917 saranno proprie della lotta del proletariato di tutti i paesi, sta nel fatto che non apparvero come per miracolo imprevedibile in Russia, ma confermarono strettamente le previsioni di una dottrina universale della rivoluzione proletaria, a cui dopo già mezzo secolo dalla sua formazione storica i rivoluzionari russi avevano felicemente attinto. Vi furono particolari condizioni della Russia, talune favorevoli, talune, come il decorso successivo rivelò, purtroppo avverse, ma è per porre in evidenza i tratti conformi della rivoluzione russa e di tutte le rivoluzioni operaie, che Lenin qui scrive e che in tutta la sua vita lottò fieramente.
Lenin parte dal 1903 perché in quell’anno il partito bolscevico si distaccò dalla socialdemocrazia menscevica, che si accodava al revisionismo europeo di quei marxisti che vollero mutare le basi rivoluzionarie della dottrina e dell’azione del partito proletario internazionale; e da quell’anno essendo del tutto distinto da tutti gli altri partiti della opposizione allo zarismo – che erano pure partiti rivoluzionari nel senso antifeudale – influì sulla situazione reale e ne risentì le influenze in modo del tutto originale, e con conclusioni ben diverse sulla efficienza della posizione di tutti gli altri partiti. Per il bolscevismo, Ottobre significò conferma e vittoria, per tutti gli altri smentita e disfatta.
Quando adunque mancavano alla rivoluzione 14 anni, il partito di Lenin aveva già appreso le direttive che conducevano alla vittoria storica, e non fu questa che gliele apprese e gli fabbricò una teoria, poiché si trattò solo di una verifica, grandiosa e gloriosa, ma verifica di una preesistente dottrina, disastrosa e mortale per le dottrine di tutti gli avversari.
Preparazione e prima rivoluzione
Tutti presentono che è prossima la rivoluzione contro il potere dispotico degli zar e della nobiltà feudale. La situazione è rivoluzionaria per tutte le classi della società russa e per i loro “portavoce”: partiti politici e gruppi di essi che lavorano nella emigrazione all’estero.
La lotta ideologica tra le varie classi in contesa precede dunque la lotta armata che si svolgerà negli anni 1905-1907 e anche in quelli 1917-20, come testualmente Lenin stabilisce. Le armi teoriche si formano dunque prima dello scontro delle forze sociali, questo è il senso generale della teoria del materialismo storico e della lotta di classe, come si applica a tutte le rivoluzioni di classe e non solo a quella anticapitalista.
Capovolge il marxismo chi crede che dallo svolgersi delle guerre tra classi sorga la possibilità di stenderne l’espressione teorica e ideologica. Ogni classe ha una ideologia rivoluzionaria assai prima di battersi per la conquista del potere, la classe proletaria anche comincia la sua lotta prima nel campo della contesa politica e dell’agitazione, e poi nel conflitto insurrezionale; il suo privilegio rispetto alle classi rivoluzionarie precedenti è di possedere, nel suo partito politico, la giusta dottrina del corso storico e la giusta spiegazione delle lotte delle altre classi, che le interpretavano falsamente. La borghesia prima della sua rivoluzione aveva già una fioritura critica e culturale che disegnava la fine delle monarchie feudali e clericali, ma in questa prospettiva del futuro era falsa la visione che con l’avvento della libertà democratica sarebbero cessate le lotte di classe e la disparità sociale; la stessa rivoluzione francese, che fu una rivoluzione “semplice” e non “duplice”, come la russa, fornì, quando mobilitò masse immense, la possibilità al partito della nuova classe proletaria, del quarto stato, di impiantare la nuova dottrina, ossia la nuova previsione dello sviluppo del futuro storico.
Lenin descrive le varie classi russe: borghesia liberale, piccola borghesia di città e campagna (coperta dall’insegna delle tendenze “socialdemocratica” e “social-rivoluzionaria”, come Lenin dice), e proletaria rivoluzionaria rappresentata dal partito bolscevico, a parte le “innumerevoli forme intermedie”.
Il dimenarsi polemico di queste tendenze offre in anticipo come una immagine fotografica dell’aperta lotta futura tra esse; e non erano dunque le lotte e le loro forme che avrebbero dato a ciascun gruppo la formula storica da agitare. Si dubita che in tal modo pensi Lenin?
Leggiamo: «All’estero la stampa dell’emigrazione solleva in linea teorica tutte [corsivo dell’originale] le questioni fondamentali della rivoluzione». Le tendenze che abbiamo citate «annunziano e preparano, con l’asperrima lotta delle loro opinioni tattiche e programmatiche, la prossima lotta di classe aperta».
E ancora: «Tutti i problemi attorno ai quali si svolse la lotta armata delle masse negli anni 1905-1907 e 1917-20, si possono (e si devono) esaminare nella loro forma embrionale sulla stampa di allora».
L’autore insiste su questo concetto: «Più esattamente: è nella lotta tra gli organi di stampa, i partiti, le frazioni, i gruppi, che si cristallizzano le dottrine politiche che realmente caratterizzano le tendenze delle classi; queste si forgiano così le armi dottrinali occorrenti per le future battaglie».
Utilizziamo qui i già citati testi editi nel 1920, uno francese e uno tedesco, che compagni che hanno risposto al nostro appello ci hanno fatto pervenire. Ad esempio, nel passo citato prima, dopo le parole: la prossima lotta di classe aperta; manca nella traduzione recente staliniana l’altra frase: e ne danno una rappresentazione anticipata. Lenin dunque pensa che come le polemiche di tendenza negli anni precedenti le lotte mettessero in scena una prova generale della rivoluzione.
Ecco il rovescio del “concretismo”, che ammonisce: vedi prima che succede, e poi ti spingi a parlare. Un passo di più e avanza il ben noto in Italia doppiogiochismo: potrai vedere chi è più forte, e giurare che hai sempre parlato come lui in precedenza, quando badavi a… tacere.
La posizione di Lenin è dunque l’opposto della vecchia banalità che contrappone l’azione alla polemica delle dottrine opposte: non perdete tempo a scrivere, a polemizzare e a dividervi in gruppetti; scendiamo in piazza, e sapremo tutto!
La conclusione di Lenin e nostra si può così formulare: L’opportunista è quello per cui la teoria segue l’azione, il rivoluzionario quello per cui la teoria precede l’azione.
La prima “verifica”
«Gli anni della rivoluzione (1905-1907). Tutte le classi entrano francamente nella mischia».
Ecco in che cosa è necessaria la lezione dell’azione delle masse: «Tutti i programmi e tutte le concezioni tattiche vengono verificati dall’azione delle masse».
Quale il senso di questa verificazione? Che le masse, in una situazione oggettivamente matura (come era squisitamente quella di un regime che in Europa era scomparso da oltre mezzo secolo ovunque, e di più uscente da una guerra disastrosissima col Giappone e quindi in piena crisi economica e politica) scelgono la direzione di quel partito le cui previsioni meglio si attagliano alla spinta che le muove.
Lenin indica subito uno dei fenomeni originali di una rivoluzione antidispotica in cui, per lo sviluppo già inoltrato della produzione capitalistica, è presente specie nelle grandi città un vero proletariato. Per la prima volta non è la lotta sulle barricate di un popolo informe, ma si ricorre allo sciopero. («L’arma dello sciopero prende un’ampiezza e una acutezza senza esempio nel mondo»). Lo sciopero era la lezione data dai lavoratori dell’Europa di occidente; ma è qui in Russia che la lezione ritorna più che potenziata. Fine dello sciopero non è più la contesa economica nella fabbrica; la nuova formula che i marxisti di sinistra da tempo propugnavano trionfa: «Trasformazione dello sciopero economico in sciopero politico; dello sciopero politico in insurrezione».
Alla data del 1905 erano in Europa i sindacalisti rivoluzionari alla Sorel, di cui abbiamo già parlato, che propugnavano lo sciopero generale come forma massima della lotta proletaria, come espressione rivoluzionaria dell’”azione diretta” di classe, in cui i lavoratori agivano essi stessi senza valersi di rappresentanti o intermediari. Questi sarebbero stati i deputati socialisti, non solo, ma gli stessi partiti politici socialisti. Una tale attitudine sarebbe stata estremamente disfattista, ma era in certo senso giustificata dalla attitudine dei partiti socialisti del tempo che avversavano gli scioperi, deprecavano lo sciopero generale e si opponevano al suo impiego.
Quanto superiore la posizione del proletariato russo che non solo aveva appreso dall’esempio delle masse operaie di paesi ove l’industria era ben più sviluppata e con meno recenti origini, ma seguiva fin da allora un partito politico rivoluzionario il quale si seppe porre al centro e alla testa dei colossali scioperi di Mosca, Pietroburgo, Odessa, Varsavia, ecc.! È chiaro che allora nessuno poteva negare il contenuto politico dello sciopero e di tutta la lotta, che aveva di contro la polizia zarista coi suoi massacri sterminatori. Sciopero politico; sciopero insurrezionale; sciopero alla testa del quale sia un partito rivoluzionario: ecco la verifica non solo di una polemica tra russi, ma di una polemica che ha la sua sede in tutta l’Europa.
Naturalmente l’interpretazione dialettica della situazione russa doveva essere tanto possente da superare la difficoltà che la natura rivoluzionaria e di guerra di classe della politica proletaria andava messa in funzione non solo dell’abbattimento di un regime autocratico, ma anche di quello borghese liberale di tipo occidentale.
Tanto sostenevano i marxisti di sinistra in Europa, e tanto fu chiaro dopo la grande vittoria di Ottobre in Russia.
Il nostro testo segue nel mostrare la portata della immensa, storica, “verifica”. Procede per tappe grandiose. «Verifica pratica dei rapporti tra il proletariato dirigente, e i contadini guidati [da lui], oscillanti, instabili».
Un’altra grande lezione della rivoluzione russa è la parte dominante delle città di alta popolazione che si mettono alla testa della rivoluzione, perché vive in esse il grande proletariato industriale. Era la lezione del ’48 europeo, quando Parigi, Berlino, Vienna, Milano e così via sorsero in armi. Ma allora nelle città partecipavano alla lotta, con gli operai ancora non così compatti e maturi come nella seconda metà del secolo, gli intellettuali, studenti ecc. e la dottrina del proletariato classe egemonica non era ancora completa. La provincia e i contadini seguivano lentamente, quando non ospitavano addirittura le Vandee. Tuttavia nella teoria della questione agraria e nella tattica agraria l’esempio italiano fu presente a Lenin, che in Russia poggiava ansiosamente sui contadini proletari prima ancora che su quelli “poveri”, come molto si è stentato a capire.
Nelle tesi di Lenin il contadino povero non è tanto il possessore di poca tetra che gli consenta una condizione di vita assai peggiore – allora – di quella del salariato urbano, quanto e in primo luogo il salariato rurale, che in Russia era relativamente poco numeroso. Vi erano paesi, tra cui in questo senso classico l’Italia, ove non solo il salariato senza terra, il puro bracciante, statisticamente prevaleva sugli altri strati della popolazione agraria, ma aveva una tradizione di lotta di classe di primo ordine e non inferiore a quella dei salariati urbani. L’Italia aveva già dato l’esempio di grandi scioperi generali politici in cui le campagne avevano avuto una parte non secondaria rispetto alle città, e in cui i braccianti agrari si erano battuti con spirito rivoluzionario di gloriosa memoria e di prima grandezza. Il fascismo fu un movimento della piccola borghesia agricola assoldata dallo Stato borghese e dalla grande borghesia rurale e urbana per smantellare le organizzazioni dei salariati di campagna prima di quelle dei salariati di città. I primi erano non meno battaglieri certo dei secondi, ma ragioni di strategia della guerra di classe, in cui la borghesia prese l’iniziativa con l’impiego delle forze militari di Stato, rendevano possibile attaccare i rossi rurali in masse minori che nelle città, concentrando squadre di giovani borghesi e piccolo borghesi spalleggiate da formazioni di Stato contro una località di poca popolazione, i suoi proletari, le sue leghe e la sua camera del lavoro. La storia della difesa dei proletari rurali fu semplicemente eroica, date le condizioni di sfavore in cui era condotta, e se i proletari urbani caddero con minore resistenza fu a causa della mancata impostazione di una lotta nazionale, sabotata dai destri e dai centristi del movimento politico.
Non è questa una digressione fuori argomento, in quanto questo stesso testo sta per indicarci come si traggono lezioni dalla disfatta. Esse sono tratte al contrario dei dati storici, e al contrario della lezione di Lenin, quando le carogne dei partiti social-comunisti tendono a sproletarizzare i braccianti e pongono davanti ai loro interessi quelli dei piccoli proprietari coloni e mezzadri, non solo poveri e semipoveri ma anche medi e ricchi, ossia di quegli strati che forniscono effettivi allo squadrismo, anche se la grande borghesia li fregò allora attraverso il fascismo, e li fregherà oggi attraverso il tradimento social-comunista della rivoluzione.
Vogliamo chiarire che la formula classica di Lenin: proletariato dirigente, contadini guidati, oscillanti, instabili, pone i braccianti rurali dalla parte dell’avanguardia dirigente rivoluzionaria e non nel pantano della oscillazione e della instabilità. Se l’avanguardia ha un partito che non tradisce, la massa oscillante andrà dalla parte della rivoluzione; ma se il partito tradisce e manca, allora essa compirà la oscillazione opposta e cadrà sotto gli influssi fascisti o democratici, succube in ambo i casi della borghesia capitalistica controrivoluzionaria.
Organi politici della rivoluzione
Tutto il testo va letto tenendo presente che esso ha lo scopo di trasportare i contributi della verificazione russa al servizio della rivoluzione occidentale. Esso risponde al problema: I famosi soviet o consigli di operai e contadini, comparsi nella rivoluzione del 1905, e protagonisti della rivoluzione bolscevica del 1917, sono una forma propria della Russia, o ci danno un tipo applicabile in tutti i paesi? Il primo parere si potrebbe basare sul fatto che in Russia la situazione in quegli anni era quella di una minoranza di proletari dell’industria contro una grande maggioranza di contadini, ma la posizione di Lenin è del tutto dialettica. Se in quella situazione la funzione rivoluzionaria dei soviet fu assicurata dalla presenza del partito rivoluzionario di classe, che conquistò i soviet contro gli opportunisti, diresse la insurrezione e assunse la gestione del potere proletario, questo decorso si presenta a maggior ragione più favorevole in occidente, ove le classi contadine e di piccola borghesia hanno peso sociale minore (ma non trascurabile), alla chiara condizione che il partito marxista rivoluzionario sconfigga nelle organizzazioni e rappresentanze rivoluzionarie gli opportunisti, la cui funzione nella prima guerra fu di aggiogare gli strati semiproletari, svirilizzando lo stesso proletariato autentico, al carro nazionale borghese (e che altro fanno gli opportunisti che dilagano dopo la seconda guerra mondiale?).
La breve frase di Lenin è questa: «Nello sviluppo spontaneo della lotta nasce la forma sovietica dell’organizzazione. Le discussioni di questo periodo sull’importanza dei soviet preannunciano la grande lotta degli anni 1917-20».
Per renderci bene conto che non concludemmo e non concluderemo a una fede miracolistica nella “nuova forma”, del tipo della consegna: Il soviet ha sempre ragione, citiamo prima della indispensabile illustrazione un altro passo, che viene nelle pagine seguenti: «Lo storia si è permessa questo scherzo: nell’anno 1905 in Russia nacquero i soviet; dal febbraio all’Ottobre del 1917 essi furono falsificati dai menscevichi, i quali, a causa della loro incapacità di comprenderne la funzione e l’importanza, fecero bancarotta; e oggi l’idea del potere sovietico è nata in tutto il mondo [Lenin sottolinea] e si diffonde con inaudita rapidità fra il proletariato di tutti i paesi, mentre tutti i vecchi eroi della II Internazionale, in conseguenza di quella stessa incapacità a comprendere la funzione e l’importanza dei soviet, fanno dappertutto la stessa bancarotta dei nostri menscevichi».
D’altra parte, appena Lenin ha trattato della seconda rivoluzione (da febbraio a Ottobre 1917), ha detto: «I menscevichi e i socialisti-rivoluzionari assimilarono mirabilmente in capo ad alcune settimane tutti i metodi e i modi, gli argomenti e i sofismi degli eroi europei della II Internazionale, dei ministerialisti e della rimanente genia opportunistica».
Non devono dunque fare la stessa bancarotta gli eroi della presente zattera da naufragio della III Internazionale, che hanno relegata in Russia la funzione storica dei soviet, e adorano in occidente quella dei parlamenti, pronti a farsene nominare ministri, come già altre volte? Ciò è tanto evidente che il nostro commento sui soviet nel pensiero di Lenin appena occorre.
È noto che della prima frase riportata, sulla nascita del soviet dallo sviluppo spontaneo della lotta, si fa uso per descrivere Lenin come il teorico della “spontaneità”, giusta la quale il partito comunista dovrebbe solo attendere che le masse scoprano o inventino esse le forme della rivoluzione, senza azzardarsi a prevederle prima.
Una simile banalità da una parte richiama il modo di pensare dei più fieri nemici di Lenin (che anche qui li flagella), i revisionisti, che non volevano si parlasse di fini ma solo di movimento fine a sé stesso, o che si pone i suoi stessi fini in modo imprevedibile; dall’altra quello degli idealisti come Gramsci, che vedevano Lenin fare gettito del determinismo marxista e inventare forme nuove!
I soviet, si dirà, non erano stati profetizzati da nessun teorico; nei libri di Marx non ci sono, né Lenin ve li aveva indicati. Ma questo sofisma consiste appunto nella ignoranza della funzione e importanza “internazionale” dei soviet che Lenin attribuisce ai menscevichi e centristi (poco più oltre egli attaccherà gli idealisti, ravvisando in essi i sinistri infantili, e sarà il caso di notare che i sinistri italiani a ogni passo avevano difeso il materialismo e il determinismo).
Forma e contenuto
I soviet sono la forma di organizzazione del potere proletario, e si può anche dire la forma costituzionale dello Stato proletario. La teoria della rivoluzione non solo è indispensabile, ma esisteva nei termini che proprio qui Lenin rivendica. Saremmo nella utopia se descrivessimo le forme di organizzazione della società futura, dello Stato futuro; siamo nella teoria del comunismo scientifico quando descriviamo le forze della rivoluzione e i loro rapporti, che sono rapporti economici, sociali e politici tra le classi. Il tipo del consiglio operaio e contadino non si trova tra i principi della dottrina, per Marx e Lenin indispensabile al partito della rivoluzione; ma tra essi sono i caratteri non capitalistici della società rivoluzionaria, i caratteri dell’urto tra le classi: lotta di classe, insurrezione, dittatura, terrore.
Questo la teoria, come Lenin rivendicò massimamente, aveva scritto chiaramente; ma era la costituzione del nuovo Stato che non aveva il compito di scrivere. Teoricamente e in principio lo Stato costituito, nella nostra accezione, è un’arma indispensabile ma passeggera nella storia, come lo sono le classi e le forme organizzative di classe (sindacati, soviet), e solo il partito politico oggi organo di classe può considerarsi eterno come organo umano. Il partito è definito dal suo contenuto, che è proprio la dottrina storica e l’azione rivoluzionaria; le altre organizzazioni sono definite dalla forma, e possono riempirsi di contenuti diversi.
Quali infatti le tesi che qui Lenin riduce a sintesi mirabile?
1. La lotta russa rivelò nella storia la forma soviet nel 1905.
2. I marxisti rivoluzionari videro nei soviet l’organo del potere proletario; mentre gli opportunisti cercarono di subordinarselo, e vi riuscirono in molti luoghi e tempi, per svuotarlo del contenuto, affermare che sarebbe sparito dopo la lotta, o che potesse coesistere in una repubblica democratica a fianco di un parlamento elettivo.
3. Non va data la formula del potere ai soviet se questi sono in mano ai menscevichi o simili, ma solo quando conduce al potere del partito comunista.
4. (II congresso). Nei paesi occidentali prima della fase di assalto al potere non si devono artificialmente formare i soviet, appunto perché nessuna forma è rivoluzionaria per automatismo.
I soviet esprimono la dittatura proletaria stabilita nella nostra dottrina prima che sorgesse nella storia (Marx per la Francia 1848 e 1871, in Lenin: Stato e Rivoluzione) in quanto non vi accedono, nelle elezioni dalla periferia al centro, i borghesi e i proprietari terrieri. Se a fianco vi fosse una camera elettiva e questa formasse un ministero, i soviet sarebbero una maschera vuota. Ecco la discussione del 1905 che viene verificata dai fatti del 1917!
La lezione della storia dal secolo XIX al XX è questa. Prima della rivoluzione francese esiste già una teoria di essa, sebbene errata. Vi è chiaro il rapporto delle forze: distruzione del primo stato (nobiltà e monarchia) e del secondo stato (clero), ma il programma del nuovo potere è: Potere a tutti i cittadini, a tutto il popolo; e non (come scoprì il marxismo, dando ai fatti la loro vera “anima”: Prefazione alla “Critica dell’Economia Politica”) potere al terzo stato, ossia alla borghesia. La teoria dei Voltaire e dei Rousseau nel XVIII secolo possiede il contenuto della rivoluzione, non ne può disegnare la forma costituzionale. Ammira la tradizione greco-romana, ma quelle democrazie avevano la piazza, ossia l’assemblea di tutti i liberi: democrazia diretta ma di una minoranza, perché vi era la maggioranza schiava. Dallo sviluppo spontaneo della lotta anche dopo il 1789 nacquero le varie forme, impreviste prima: assemblea nazionale, costituente, convenzione… matrici delle camere elettive dell’ottocento. Anche l’esempio storico inglese non fu seguito che dopo, con la doppia camera, e non fu teorizzato che post festum. A sua volta era nato dalla lotta tra due classi diverse: borghesia industriale e proprietari terrieri.
Il soviet dunque, possiamo dire, sta alla rivoluzione in cui cade il capitalismo, come il parlamento costituzionale sta alla rivoluzione in cui cade il feudalismo. Sono le strutture in cui si ordinano gli Stati usciti dalla rivoluzione che ha distrutto l’antico regime. In questo chiarimento li chiamiamo forme di organizzazione dello Stato, che è cosa diversa dalle forme sociali o modi successivi di produzione. Di questi le vecchie rivoluzioni non erano precoscienti, perché celavano a se stesse la nascita di una nuova classe dominante; ma la nostra rivoluzione con la teoria sua propria lo è, e conosce i veri caratteri per cui il modo sociale comunista si contrapporrà a quello capitalista, e sarà senza più classi e senza classe dominante, alla fine.
La visione menscevica e borghese della rivoluzione russa la voleva chiudere in una forma di ingranaggio statale non diversa da quella dei paesi capitalistici: la democrazia elettorale. La visione marxista e bolscevica prevedeva e sapeva che la rivoluzione non si sarebbe fermata che alla vittoria del proletariato, egemonico sulle altre classi povere, e quindi alla sua dittatura. Nei nostri studi sulla rivoluzione russa abbiamo ricordato come anche prima del 1903 Lenin proponesse la formula: Dittatura democratica del proletariato e dei contadini. Nel 1917 egli arriva in Russia, e annunzia la formula completa, universale, internazionale, centro della dottrina marxista della rivoluzione: Dittatura del proletariato.
Tutta l’opera di Lenin tende a stabilire che la rivoluzione russa non si svolge secondo formule specifiche “locali”, ma al contrario, pure essendo stata per lunghi anni attesa come una ritardata rivoluzione democratica, il fatto che in essa, e sin dalla fase 1905-7, lottano in prima linea le classi lavoratrici, sviluppando nella lotta una forma loro propria, il soviet, la trasferisce in una immediata rivoluzione di classe proletaria, che riempie di sé la nuova forma, e dunque ne fa forma non interclassista, non democratica, non popolare e non populista, ma classista, legata internazionalmente al proletariato di avanguardia, guidata internamente dal partito marxista, e quindi apparsa per riempirsi del contenuto che la teoria rivoluzionaria aveva sicuramente previsto: potere di classe, Stato di classe, dittatura di classe, mete che la storia non raggiunge che quando la classe si è organizzata in partito, come scritto nel «Manifesto» del 1848. E può organizzarsi in classe dominante, per la distruzione della società divisa in classi, perché il potere, lo Stato, la dittatura, sono funzioni del partito.
Abbiamo già visto che altra tesi di Lenin, che con lui sempre difendemmo contro i veri infantili, è che il soviet non esclude il partito, come molti in Europa credettero, ma ne esige la presenza e l’efficienza, perché è una semplice forma di organizzazione che va riempita del contenuto, e il partito è la forza della storia che sola può arrecarlo.
Il primo giornale della sinistra italiana fu “Il Soviet”. Essa si oppose alla proposta di molti massimalisti di fondare i soviet in Italia nel 1919. Essa dichiarò necessario il partito rivoluzionario con una chiara teoria, e liberato dagli opportunisti. Essa sostenne, contro le visioni immediatiste, che i soviet non erano una rete di sindacati o di consigli di azienda, ma il tessuto territoriale e centralizzato del nuovo Stato proletario, la cui ossatura doveva levarsi nella fase della insurrezione. Che erano quindi organi di natura politica, ma la loro struttura aveva bisogno della funzione attiva del partito rivoluzionario, perché la rivoluzione vincesse. E questi insegnamenti, con Lenin, si traevano dalle lezioni russe della storia, calzando in modo perfetto con il disegno classico della nostra dottrina.
La realtà apporta le forme, ma la teoria prevede il contenuto, ossia le forze e il loro rapporto e scontro. In questi passi lapidari, se crediamo alla versione tedesca in nostro possesso, Lenin ha adoperata la parola profetizzare. «Le contrastanti discussioni del 1905-7 sulla importanza dei soviet profetizzano le grandi lotte del 1917-1920».
Segue il leninismo non chi sbanda e tentenna, ma chi non teme di impegnarsi a profetizzare il futuro.
[RG-27] La scienza economica marxista è programma rivoluzionario Pt.2
Il ciclo tipo delle metamorfosi
Riprendiamo, con il soccorso dei richiami già dati in varie riunioni e qui ricordati a resoconto di quella di Casale, la definitiva presentazione ordinata della Sezione Prima del Libro Secondo del Capitale.
Tanto nella nostra esposizione che nell’Abaco già distribuito è data chiara ragione delle tre forme e delle tre figure del Capitale nella sua circolazione. Le forme del Capitale sono tre: denaro, processo produttivo, merce. Nel ciclo questo ordine si ripete di continuo. Le tre figure dipendono dalla scelta della forma di partenza. Prima figura: denaro, merce, processo produttivo, merce, denaro (aumentato). Seconda figura: processo produttivo, merce, denaro, merce, processo produttivo. Terza figura: merce, denaro, merce, processo produttivo, merce.
Nel nostro studio abbiamo presa come più espressiva la seconda figura, che Marx solo tra tutti gli economisti ha scoperta e spiegata. In essa infatti si distinguono i due tipi di ”riproduzione” del capitale. Se il processo produttivo di arrivo è identico a quello di partenza, si ha la riproduzione semplice, essendo andato tutto il plusvalore (sopradenaro nella prima figura, sovraprodotto nella terza, o, se ci permettiamo altri neovocaboli, sovra-merce) a godimento personale del capitalista: se invece il processo produttivo di arrivo è potenziato rispetto a quello di partenza (più lavoro e più materie lavorate e prodotte, e quindi più strumenti di produzione in esercizio; più consumo degli stessi) allora si ha la riproduzione allargata o progressiva.
Per tenere chiari questi concetti si consideri un solo capitalista ed una sola azienda – il che non toglie che, come abbiamo mostrato passo per passo, Marx faccia i confronti colla totale società capitalista, e colla società comunista.
In queste tre figure la catena del ciclo si considera ininterrotta. È il caso più semplice per intendere bene l’oggetto della Seconda Sezione, che tratta della ”restaurazione del capitale”. Questo significa che mentre il processo produttivo prenderà un certo tempo (che si può ridurre per due sole vie: crescere le ore giornaliere di lavoro, o crescere la produttività tecnica del lavoro) gli altri trapassi: merce a denaro, e denaro a merce, avvengono in modo istantaneo. Tale ipotesi si fa solo a fine teorico, essendo nella pratica irrealizzabile: dovrebbe esistere una banca che appena elaborato tutto il prodotto di un ciclo ponesse a disposizione tutto il denaro, ed un’altra che ne avesse messo a disposizione anche prima per far trovare già pronte le nuove materie prime. Solo per il capitale salari non vi sono difficoltà perché, come Marx fa notare più e più volte, solo il ”lavoro vivo” non chiede anticipi: gli operai sono pronti in ogni momento e si pagano dopo otto o quindici giorni di erogazione immediata della forza lavoro.
In questo ”caso limite” del tutto astratto e fuori dalla realtà capitalista il gettito del plusvalore è costante nel tempo e non subisce remore; viene poi la questione se il capitalista lo consuma tutto, o se lo riporta in parte a nuovo capitale anticipato nella produzione allargata.
Ma qui Marx si addentra nella ricerca – per ora sempre riferita al primo momento – dei ritardi che costringono a dilazionare la ripresa del ciclo produttivo rispetto a quel minimo, che per un momento abbiamo ammesso possibile.
Il periodo di circolazione
Nell’azienda singola capitalista, dato che le banche immaginarie che per nostra comodità abbiamo introdotto non esistono, e che quando esistono (come Marx più oltre spiega circa gli effetti del credito) non operano senza contropartita, e tale contropartita ha proprio lo stesso effetto delle remore che ritardano il recupero del denaro del capitalista quando a fini di studio immaginiamo che tutto avvenga a pronti contanti, il periodo di rotazione del capitale anticipato è sempre maggiore del periodo di produzione. Marx lo dice già nei capitoli finali della Prima Sezione, ma i concetti sono più chiari nei primi capitoli della Seconda (Engels nella sua prefazione spiega che tali materiali si rinvengono frammisti in più manoscritti, più o meno elaborati, e che è stata cosa difficilissima ristabilirne l’ordine sistematico che l’autore avrebbe dato se avesse curata lui la edizione finale). Sarà bene quindi chiarire le varie partizioni temporali che usa Marx nel presentare tutto il processo di produzione, circolazione, e riproduzione del capitale.
Basta per ora pensare sempre al capitale di una sola azienda.
Periodo di produzione. Non è la stessa cosa del tempo di lavoro. Supponiamo che l’azienda debba produrre un gruppo di prodotti finiti, ad esempio cento tavoli, per i quali si inizi in pari a tagliare il legno e fare tutte le altre operazioni. Se pronti dopo tre mesi, le ore di lavoro saranno state otto al giorno per tanti giorni (e per tanti operai). Comunque dato che sedici ore su 24 non si lavora, il periodo di produzione è triplo del periodo di lavoro (non si pensi ancora ai turni continui di varie squadre).
Al periodo di lavoro e al periodo di riposo Marx ne aggiunge un terzo nel quale i mezzi di produzione (materie prime) devono essere già approvvigionati, ma non si possono ancora impiegare nella operazione lavorativa: ne daremo l’idea immaginando che il legno prima di essere segato debba stagionare un certo tempo. Chiariamo: per comprare la legna per cento tavoli devo avere chiuso il realizzo dei cento tavoli precedenti, ma posso avere bisogno di un mese perché la legna comprata appena venduto il primo lotto sia adoperabile.
Diciamo: periodo di produzione uguale periodo di lavoro, più periodo di riposo, più periodo di ”digestione” o ”maturazione” (Marx cita la fermentazione dei vini o la germinazione del grano seminato); infatti il periodo di produzione agricolo non può essere inferiore a quasi un anno, oltre quindi il tempo di lavoro e di riposo dei lavoratori dedicati a quella derrata.
Periodo di circolazione. Torniamo col pensiero all’azienda manifatturiera. Il Ciclo non si può esaurire con il solo periodo di produzione che riguarda la fase P delle tre figure. Infatti alla fine vi è una trasformazione M-D, ossia da merce a denaro in tutto il prodotto, che non può essere, come per un momento abbiamo supposto, istantanea. Le merci vanno portate al mercato, si devono trovare gli acquirenti, che possono essere in luoghi e tempi diversi, con spedizioni, trasporti, smistamenti, invio e ricezione del denaro ecc. All’inizio del nuovo ciclo il denaro così reperito deve essere trasformato parte in forza-lavoro, e qui in generale e salvo casi di eccezione non si perde tempo; parte in provvista di materie prime e di utensili o anche in riparazione di parti di utensili. Ciò per attuare l’altro trapasso commerciale da noi indicato con D-M. Queste due perdite di tempo, o attese per le operazioni di mercato in un senso o nell’altro, una volta sommate, danno il periodo dicircolazione, esterno, da aggiungersi al periodo di produzione.
Nel periodo, o nei due semiperiodi, di circolazione, circola anche capitale, come nel periodo di produzione, ma in quei due semiperiodi D-M ed M-D si può anche dire che si tratta di circolazione generale delle merci, che si attua tra equivalenti giusta la legge del valore, in quanto denaro da una parte e merce dall’altra sono scambiati.
Tutto il complesso della circolazione sociale, avverte più volte Marx quando gli piace passare al ”secondo momento”, è l’intreccio della circolazione delle merci e della circolazione dei capitali, e si tratterà di coglierne il movimento di insieme quando vorremo dare il quadro, il tableau, della società capitalistica.
Si noti che D-M anche per la parte che è pagamento di salari ricade nel quadro della circolazione mercantile. Non dà luogo ad una speciale attesa che prolunghi il periodo di circolazione del capitale e vada in conto di questo, perché sono rari i casi in cui bisogna andare lontano ad ingaggiare operai; ve ne sono disoccupati e ne nascono a iosa! Ma la natura mercantile e il rispetto della legge del valore (tanto cara a Stalin e ai suoi epigoni) sono perfetti in virtù di quella che Engels chiama la originale scoperta di Marx (nel deridere la pretesa accusa di plagio dal banale Rodbertus). L’operaio vende la sua forza di lavoro, merce il cui prezzo, e quindi il cui vero valore, è il salario. È quando, nella sfera non più di circolazione mercantile, ma di produzione capitalistica, il capitalista (o ogni società ad economia pecuniaria) consuma questa merce specialissima, che si forma il plusvalore, ossia avviene la produzione non di merci solo, ma di plusvalore e di capitale. I due estremi del ciclo differiscono grandemente, ma la legge del valore, pilastro della galera capitalistica, è stata salva in tutti i trapassi.
A noi sembra umilmente che i capitoli finali della attuale Sezione Prima andrebbero dopo i primi della Sezione Seconda. Comunque ne seguiremo i dati su cui abbiamo già tratte molte anticipazioni, dopo avere stabilito la relazione finale che ha riguardo ai tempi.
Periodo di produzione – Periodo di circolazione – Periodo di rotazione del capitale. Ovvero, anche – periodo di riproduzione del capitale.
Sistematicamente la Seconda Sezione tratta della restaurazione del capitale aziendale, singolo. Sarà la Terza Sezione che, passando all’insieme sociale di tutte le aziende capitalistiche, tratterà la Riproduzione del capitale sociale totale, e imposterà la classica questione del marxismo, ossia il trapasso dalla riproduzione semplice alla riproduzione allargata o accumulazione.
I passivi della circolazione
Il solo studio della produzione del capitale, svolto nella ipotesi più comoda ad un nostro immaginario contraddittore, che faccia la difesa apologetica del sistema capitalistico, ossia che non vi siano altri danni alla società (e come sarà facile mostrare alla classe dei produttori) nella successiva sfera della circolazione, dopo quelli arrecati nel puro processo produttivo infraziendale, ha già stabilito il suo punto di arrivo, fin dal Primo Libro; il tasso del plusvalore, che misura la sottrazione operata dalla classe capitalistica sul prodotto sociale, è il rapporto del plusvalore al capitale variabile, indipendente dal valore del capitale costante, circolante nella produzione, e dal molto maggior valore del capitale fisso sociale.
Questo tasso o saggio è fissato in una media sociale storica da Marx, che considerava l’economia della seconda metà dell’Ottocento, nel cento per cento, in tutti gli esempi classici. Con ciò non è solo ”scientificamente descritto” il sistema borghese, ma gli è elevata una accusa di antisocialità o per dirla più volgarmente di appropriazione indebita, la cui misura è l’un per uno, ossia il mezzo del totale disponibile. È quello che a Casale fu proposto di chiamare grado di sciupìo. Sulla sola considerazione del processo di produzione, entro un’azienda isolata, la società per il fatto di adattarsi ad essere capitalista sciupa, distrugge, sperpera sé stessa e la sua vita, la sua umanità, nella misura e nel grado di una metà.
Il primo momento della dottrina marxista conclude a questa prima condanna del mondo presente: grado di sciupìo di una metà.
Marx passa a considerare quello che avviene nel tempo di circolazione. Lo fa con riferimento all’azienda, ma, diciamolo ancora, si ferma a dare uno sguardo a tutto il complesso sociale ed alla futura società non più capitalista, e soprattutto non regolata da meccanismo monetario. Scoprirà così i molto più profondi, paurosi abissi, della disumanità distruttrice borghese.
Ci limiteremo a dare lo schema dei paragrafi.
Spese di circolazione propriamente dette. In questo primo esame non si tratta ancora dei periodi di tempo che conducono ad arresti della produzione.
Si tratta della attività e dell’impegno che bisogna mettere in ogni atto di scambio mercantile da tutte e due le parti, per prevalere sulla opposta. La concorrenza, chiave di tutto il sistema degli economisti volgari, è ridotta sarcasticamente da Marx al proverbio: a Normanno, Normanno e mezzo! Il capitalista può ben prendere un suo agente per questa funzione (piazzista, viaggiatore, rappresentante), e lo deve pagare, ma questa è una falsa spesa. Non aggiunge valore al prodotto, anche se l’agente è un salariato, nel qual caso si verifica solo una certa diminuzione di questa spesa per l’azienda, ma non una produzione di valore e di plusvalore.
Che è di questa spesa ”commerciale” nelle varie ”forme”?
In quella della piccola produzione tale attività si faceva di domenica ai mercati, sacrificandovi ore libere, ed era assorbita senza gran danno sociale. In quella capitalista indiscutibilmente va a danno del capitalista, aumenta il passivo e riduce il profitto di azienda. Ammesso che il salario dei ”venditori” sia chiesto al capitale variabile, togliendo agli operai della produzione alcune teste, si avrà meno plusvalore, con danno del titolare di azienda.
E nella società comunista? Indubbiamente in una razionale distribuzione dei compiti una funzione di apporto dei prodotti al consumo resterà, ma tutto il lavoro da Normanno, ossia per fare fesso il prossimo, sarà dalla comunità risparmiato, in quanto non si sceglierà secondo la concorrenza degli interessi singoli, ma secondo il massimo utile comune calcolato dal centro (pensate alla spesa reclamistica!).
Marx dà un elegante paragone fisico per la ”falsa spesa”. La nafta (egli si serve del carbone) fornisce una forte energia calorifica nel combinarsi con l’ossigeno, e questo è un attivo. Ma la combinazione avviene quando la nafta liquida che arriva fredda da un iniettore è stata portata allo stato gassoso. Il calore di gasificazione del combustibile liquido è una energia che va in sottrazione della prima. Ma non si avrebbe la prima se non si spendesse la seconda, sicché l’attivo del processo è solo nella differenza.
Contabilità. Occorre avere alcuni agenti salariati che fanno i conti del movimento aziendale di spese ed entrate. Il piccolo produttore se li faceva da sé, il grande capitalista avrà dei salariati (impiegati). Questi sono tanto sfruttati quanto i lavoratori della produzione (tra cui pure sono alcuni intellettuali). Abbiamo discusso la falsificazione che si fa della tesi marxista col dire che questa spesa esisterà in tutte le forme. Marx dice che vi è una certa differenza tra la spesa di compravendita, che è del tutto falsa, oggi nel senso che la sostiene l’azienda, e domani nel senso che la produzione comunista, abolendo gli scambi mercantili, la ignorerà. Una certa spesa di contabilità vi sarà sempre, nel senso di una attività dedicata a tale funzione. Nello svolgersi del capitalismo è chiaro che il peso sociale della contabilità è tanto minore quanto minore è il numero delle imprese ossia la concentrazione del capitale sociale. Tra cento imprese vi sono da tenere cinquemila conti in partita doppia, tra dieci solo quarantacinque.
Quando la società sarà una sola impresa non vi saranno conti monetari, ma solo registrazioni e calcolazioni su quantità numeriche fisiche, come tempi, distanze, pesi, volumi, forze, energie, ecc. ecc.
Non vi sarà più distinzione tra attività che producono plusvalore e attività che non ne producono, perché questo ha senso solo nel primo momento (bilancio dell’azienda) e nel secondo (società capitalistica globale). Nel terzo momento (società comunista) non si produce plusvalore perché non si produce valore di scambio, ma solo, nel modo migliore per la generalità, valori di uso.
Altri passivi minori
Moneta. L’uso del circolante indispensabile nella società aziendale (ed anche tra cooperative di azienda) comporta altre perdite puramente passive per distruzione di denaro e simili. La fabbricazione della moneta è una produzione di una merce speciale, ma è un falso passivo. Le fedi bancarie contro moneta spostano solo la questione, in quanto il servizio bancario costa, e impegna forze di lavoro, necessarie solo per perpetuare la autonomia tra azienda ed azienda e tenere il conto idiota dei capitali, crediti e debiti di tutte. Questa spesa sparisce nel terzo momento. Un socialismo con moneta è tanto assurdo e blasfemo quanto un socialismo con banche.
”L’oro e l’argento come merci monetarie costituiscono per la società delle spese di circolazione che dipendono unicamente dalla forma sociale della produzione. Sono delle false spese della produzione delle merci che aumentano con lo sviluppo di questa produzione capitalista. È una frazione della ricchezza sociale che deve essere sacrificata al processo di circolazione” (Cap. VI, 1°, III).
Che vi sia il passivo Marx lo prova con una citazione del conformista Economist. Ma quello che solo Marx dice è che tutto questo passivo sociale (più tormento di lavoro, meno disponibilità di valori di uso) è scomparso nel terzo momento, nella società socialista.
Spese di conservazione. L’azienda deve conservare per un certo tempo ”a magazzino” sia le merci comprate che quelle prodotte da vendere. Occorrono adatte costruzioni e qualche guardiano. Inoltre ogni capitale fermo è capitale che non genera plusvalore. In alcuni casi vi è inevitabile deperimento quantitativo e qualitativo delle merci. Per l’azienda sono tutte false spese. Qui Marx mette chiaramente la questione che noi abbiamo battezzata dei tre momenti.” Ci resta da cercare fino a qual punto queste spese provengono dal carattere particolare della produzione di merci in generale, e dalla produzione di merci nella sua forma generale ed assoluta, ossia la produzione capitalista; fino a qual punto sono d’altra parte comuni a ogni produzione sociale e non prendono che una speciale forma di esistenza nella produzione capitalista”.
I predecessori di Marx hanno espresso opinioni contraddittorie sulla estensione delle provviste prima del capitalismo ed oggi. Essi hanno confuso la provvista di merci, e la provvista di oggetti di consumo. Nelle antiche produzioni naturali le cose coincidevano, in quanto il produttore poteva consumare attingendo alla riserva dei suoi stessi prodotti non smaltiti. La produzione moderna crea riserve di merci che possono essere usate solo se si scambiano, e questo è un suo carattere nuovo. Nel Medioevo i poteri statali accumulavano grano che in caso di carestia si distribuiva gratis al popolo. La economia borghese è la più malsicura (vedi studi sull’Inghilterra) per i lavoratori poveri, mentre è quella che come masse di merci e mezzi di produzione ha accumulato ricchezze enormi. Marx tuttavia dimostra che con una migliore tecnica specie dei trasporti e la loro maggiore velocità, diminuisce anche nella società mercantile e borghese la necessità di grandi stocks e la relativa spesa. Tuttavia la diminuzione relativa può conciliarsi con un aumento assoluto per l’aumento incessante del volume di merci che il capitalismo produce. Comunque più la concentrazione aziendale avanza, meno pesano tali spese.
In ogni forma sociale, e quindi anche nel comunismo, esiste la necessità di avere una certa provvista totale di oggetti di consumo e di materie prime, ossia di oggetti per il consumo produttivo. Le attività necessarie sono razionali e non di sciupìo. Ma in quanto le aziende capitaliste fanno provvista di merci per manovre di mercato (che Marx qui, anticipando la teoria delle crisi, mostra essere armi a doppio taglio) questo è uno stockage anarchico, irrazionale e distruttivo, che sparisce nella forma non mercantile, il comunismo. L’analisi, di estrema delicatezza, si completa solo con dati della successiva sezione.
Spese di trasporto. Anche queste non sono, come le spese di scambio, tutte false, ma fino ad un certo limite sono utili e saranno funzioni anche della società non capitalista, sebbene allora la dizione di spese non sia da usare. Ma la distinzione, talvolta ardua, è in un primo momento studiata da Marx vedendo se tali spese oggi aumentano o meno il valore del prodotto.
Un sistema razionale di trasporto lo può aumentare, nel senso che lo scambio internazionale diminuisce lo sforzo totale di produzione, ma a ciò si sovrappongono mille manovre concorrenziali e speculative per agire sulle curve dei prezzi coll’effetto di predare valore da parte di una azienda o gruppo contro altri. Questa seconda parte di movimenti, che sono spesso finti, ossia constano di scambi sulla carta senza reale trasporto, costituiscono una massa di sciupìo, che la società postcapitalista eviterà, perché non sposterà valori di scambio ed accrediti o addebiti aziendali, ma solo valori di uso, ossia oggetti fisici, dotati di potenziale di utilità, e di più giudicata non dagli appetiti singoli, ma dal piano sociale umano.
La Seconda Sezione
Il contenuto centrale della Seconda Sezione è la dimostrazione che la divisione della produzione per aziende conduce a dover fare nell’interno di ciascuna di esse un ”piano aziendale” che si basa sulla valutazione del periodo di rotazione o riproduzione totale del capitale pecuniario dell’azienda ad ogni ciclo, comprensivo del tempo di produzione e di quello di circolazione. Poiché nella apparenza delle cose ogni azienda lavora sempre, essa è costretta, a parità di capitale, a lavorare meno, con meno lavoratori. È la paralisi di tutto il complesso globale sociale, che sparirà con il sistema aziendale.
Quindi a nostro avviso la dimostrazione della Seconda Sezione è che la divisione aziendale, rispetto ad un modello astratto di società in cui vi fosse una azienda unica, costituisce una perdita sociale macroscopica. Ciò non vuol dire che passando al terzo momento permangano lo scambio e il denaro, a cui è dovuto un ulteriore grosso ”scaglione di sciupìo”, ma vale a dimostrare le grosse dimensioni dello sciupìo che è funzione della anarchia della produzione, ossia del suo funzionamento per iniziativa privata, o, il che significa lo stesso, per aziende indipendenti.
Come non basta a stabilire la ”proposta socialista” il primo momento, in cui restando autonoma l’azienda i lavoratori prendessero possesso del plusvalore (idea anarchica e piccolo borghese), così non basta il secondo momento, in cui le aziende fossero riunite in una sola gestione pianificata (come vedremo nella Terza Sezione sarebbero due aziende immaginarie, quella che produce strumenti e quella che produce oggetti di consumo) a darci una economia socialista, in quanto in questa supposta società i passaggi si fanno con denaro. La proposta socialista è di abolire lo scambio e la moneta.
Tuttavia come nella proposta ingenua di conquistare l’azienda pare che si riconquisterebbe la prima fase di sciupìo (profitto di impresa), ma pare soltanto perché così sarebbe se non si uscisse dalla riproduzione semplice che è antisociale (Marx: Critica al programma di Gotha); nella proposta (che potremmo chiamare staliniana, sebbene la Russia non vi sia mai giunta nell’agricoltura e oggi ne rinculi a massima velocità nell’industria) di abolire l’aziendismo, si elimina un secondo ”scaglione di sciupìo”.
Marx nel Secondo Libro ne cerca la misura calcolando il capitale denaro anticipato che comporta la produzione aziendale sparpagliata, e quello assai minore che comporterebbe la gestione centrale. Il maggiore bisogno di denaro contante, che Marx dimostra non contraddetto dal ricorso al credito e da analoghe misure, serve a misurare un maggior onere sulla ”società”, ossia sulla classe che lavora. Anche il grande Engels non sembra convinto, non del contenuto di condanna al sistema borghese, ma del metodo di calcolazione che Marx ha scelto usando la misura del denaro contante anticipato.
La conclusione della geniale dimostrazione di Marx la possiamo così anticipare: nella società socialista (comunista) non vi sarà capitale; nella società capitalista la misura di questo socialmente è la produzione annua di merci, ma nella società capitalista spezzata in aziende bisogna che il capitale anticipato in moneta nell’anno sia maggiore del capitale sociale. L’effetto di tale fatto non è simbolico, ma è un grado di sfruttamento della classe operaia, dello stesso ordine di grandezza di quello che già esiste entro ciascuna azienda, che quindi lo raddoppia, e che sopravvive in una società ”cooperativista” mentre il socialismo lo abolisce, in uno al terzo scaglione, con il superamento della forma mercato e della forma moneta, oltre che della forma azienda.
Non è facile impresa riferire questo modello al testo di Marx, quale ci è giunto.
Ricerca attraverso i tempi
La economia volgare calcola le perdite e le false spese in denaro come una aliquota dell’attivo, in genere considerando come attivo il capitale patrimoniale, che ingloba il valore di tutti gli impianti fissi e della proprietà immobiliare dell’azienda. Per la nostra economia il capitale attivo è il solo capitale circolante, ossia tale da apparire ad un dato momento come merci prodotte. Essendo la nostra grandezza attiva minore, le perdite hanno peso più grande, è più facile che possano pareggiarlo e superarlo. Per l’impresa borghese questo si chiama fallimento, per tutta la società borghese conduce alla condanna rivoluzionaria che noi ne facciamo. Il fallito si vede messo in vendita tutto: merci in magazzino, contanti in cassa, macchine e costruzioni.
Marx, che ha già dato cenno del peso di molti passivi della circolazione, si attiene nella sua dimostrazione al calcolo in unità di tempo. Ne ha tutto il diritto da quando i suoi contraddittori hanno ammesso che nell’ambiente capitalista il tempo di lavoro è valore ed è fonte sola di ricchezza.
La forma sociale di cui con lui siamo a denunziare il fallimento, è costretta a sciorinare il suo bilancio negativo (passivo oltre l’attivo) sia in valore denaro sia in valore merci sia in valore macchinari sia in valore possesso immobili, perché fallisce nel bilancio del tempo e del benessere umano.
Si comincia col Capitolo Settimo sul tempo di rotazione di cui abbiamo già riferito il concetto: somma del periodo di produzione e di quello di circolazione del capitale di azienda. Periodo di rotazione è quel tempo dopo il quale a mani del capitalista si ritroverà, per ripartire nel nuovo ciclo, tutto il capitale anticipato al principio come denaro. Il tempo base è l’annata. Se la sua misura in mesi settimane o giorni è R, come già dicemmo, e se r piccolo indica il periodo di rotazione, il capitale anticipato pecuniario ruota in un anno n volte, essendo ovviamente n uguale a R diviso r. Si vedrà che r piccolo può essere maggiore di R grande, e quindi n minore di una rotazione all’anno; avverrà allora che il capitale da anticipare è più grande del capitale dell’azienda.
Notiamo che la edizione francese Costes usa nello stesso senso di rotazione la parola restaurazione. L’espressione non è mal scelta perché si tratta di ricostituire lo stesso capitale denaro di partenza, tuttavia nell’originale tedesco la parola è unica: Umschlag che vale cambiamento, rivolgimento. Sul senso non corre dubbio.
Il Capitolo Ottavo, al fine di ben stabilire il calcolo del tempo di recupero del denaro sborsato dal capitalista, si ferma sulla distinzione tra capitale fisso e capitale circolante, in relazione al concetto di capitale costante. A Marx preme giustamente porre in evidenza come i suoi predecessori non avessero in questo argomento idee chiare.
A questo stesso tema, di essenziale importanza e su cui anche fedeli marxisti hanno quasi sempre equivocato, si riferiscono il X e l’XI Capitolo. Engels ci assicura di avere avuto attenzione a non ripetere qui quello che era materiale riservato al Quarto Tomo: Storia delle dottrine del plusvalore, in cui infatti si torna molto spesso su questo punto. A noi pare però non tanto che vi siano delle ripetizioni (che sono sempre interessanti perché uno scrittore dalla ideazione audace come quella di Marx ogni volta che riespone il già detto arreca materiali propriamente preziosi nella sostanza e nella sempre viva e vibrante formulazione), ma che i capitoli di questo Secondo Tomo non siano stati ordinati al meglio. Abbiamo spiegato i motivi, per i quali Engels non poteva fare altrimenti da come ha fatto.
Capitale fisso e circolante
Capitale circolante è in Marx tutto il valore passato al prodotto, ossia il solito c + v + p. Il capitale salari è tutto circolante ed anticipato, il plusvalore non è anticipato ma prodotto nel processo produttivo di cui si tratta, e rovesciabile nella ulteriore circolazione del capitale. Anche tutto il capitale costante passa nel prodotto ed è quindi tutto circolante, e dunque non è capitale fisso. Dunque la distinzione tra capitale fisso e circolante non è distinzione tra due parti del capitale costante.
La giusta espressione è che il capitale costante si compone di due parti, ma che entrambe passano nel valore prodotto e sono capitale circolante. Inoltre è giusto dire che insieme a v tutto il capitale costante è capitale anticipato, e tuttavia non è lecito dedurre da questo che la anticipazione si riduca a c + v .
La prima anticipazione è alquanto maggiore in una società capitalista ad aziende, perché qui viene in ballo il capitale fisso.
Le due parti del capitale costante si distinguono così: una (materie prime ed ausiliarie) si consuma tutta nel processo produttivo e si dovrà ricomprare nel seguente ciclo; quindi nella teoria nostra passa tutta nel valore del prodotto, parte proprio materialmente, parte indirettamente (combustibili ecc.). L’altra parte ”che anche circola” non è il capitale fisso (macchine ed impianti), ma è solo la quota logorio, degrado, di questo capitale. La si calcola tutta nel nostro c e quindi nel c + v + p, ma a differenza della prima parte di c non la si deve ricomprare subito dopo il primo ciclo. Ma si deve accantonare e tenere in serbo fino al ciclo (spesso di molti anni) in cui tutta la installazione di macchine, fabbriche ecc. divenuta per il totale degrado inservibile, si dovrà rinnovare.
Quindi le vendite dei prodotti dei vari cicli basteranno a tenere in vita la riproduzione del capitale e l’attività dell’azienda, ma tutto il valore del capitale fisso deve essere anticipato alla partenza, all’apertura della nuova impresa (investimento). Da questo momento per l’accumularsi della quota di logorio, parte di c, al momento dovuto saranno pronti i mezzi monetari per ricostruire l’impianto senza altre anticipazioni vive.
Tuttavia la prima anticipazione dovrà essere di volume maggiore di tutto il capitale messo in circolazione. Ovvero il capitale messo in circolazione (è di tale circolazione che la società vive, anche se male) è minore della somma che – avendola predata – investe il capitalista iniziale.