Kansainvälinen Kommunistinen Puolue

Il Programma Comunista 1967/1

Materialismo o idealismo? (a proposito della "Critica della ragion dialettica" di J.P.Sartre) Pt.1

Il lettore si rassicuri: non ci siamo inflitta la lettura delle 800 pagine del signor Sartre. Neppure se ne indigni: non faremo la critica di questo libro, che non abbiamo letto. E non creda che ci beffiamo di lui: abbiamo letto il titolo di Sartre, ed è di questo titolo che faremo la critica.

C’è di che scandalizzare la gente «seria». Ma come! Il «grande filosofo moderno», il pensatore «di sinistra», studia (sembra) la dialettica, il marxismo, l’uomo, il proletariato, ecc. in 800 pagine fitte fitte, e noi ci accontentiamo del titolo? Oh, delitto di lesa filosofia!

Meglio confessare subito che non abbiamo nessun rispetto per la filosofia, e meno che mai per i filosofi. Se facciamo la critica del titolo di Sartre, è solo perché, in quel titolo, alla questione fondamentale egli ha già risposto, e tutto ciò che segue non vi cambia nulla. Quello che vogliamo mostrare è appunto che le concezioni filosofiche fondamentali non sono quelle cose spaventosamente complicate che si possono spiegare solo in grossi volumi, e che appena qualche specialista può capire; quello che vogliamo mostrare è appunto che questa montagna di dottissima schiuma serve solo a mascherare la risposta molto semplice a un quesito molto semplice. Non che attribuiamo una particolare importanza ai fatti e alle gesta di Sartre, anche se scrive sul marxismo o porta le valigie del F. L. N. algerino. Ma egli è un tipico rappresentante della odierna filosofia borghese, e questo studio ci permetterà di chiarire una questione che i pensatori borghesi, di destra o di «sinistra» si ingegnano di oscurare, ricordando che cos’è il materialismo dialettico.

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La questione del materialismo è infatti alla base di ogni costruzione teorica. Come diceva Engels1, non vi è che un problema filosofico serio: materialismo o idealismo? Dobbiamo quindi vedere come a tale problema risponde Sartre, e ricordare come vi risponde il marxismo. Mostreremo nello stesso tempo che, in questo, non si tratta minimamente di una «lotta di idee», ma che le concezioni filosofiche traducono delle opposizioni di classe e diventano a loro volta delle armi nella lotta di classe.

Per identificare rapidamente la posizione di Sartre su questo punto fondamentale, e meglio riferirsi, più che ai grossi trattati di filosofia, ad un articolo di critica artistica su «I Mobiles di Calder» (in Situation III). I mobiles sono delle sculture fatte di pezzi articolati e quindi suscettibili di muoversi gli uni in rapporto agli altri in modo che la configurazione d’insieme cambi; e ve ne sono di diversi tipi: quelli di Calder sono fatti di aste e palette articolate che una semplice corrente d’aria mette in moto. Sartre è rimasto affascinato da questi mobiles in quanto, per lui, essi rappresentano l’incarnazione del «mistero filosofico»: il problema del moto. Alla vista di queste cose che si muovono apparentemente da sole, un mistico terrore lo afferra: È solo un oggetto, eppur si muove! E il filosofo si chiede: bisogna pure che al mobile la mobilità venga da qualche parte: da dove? Da dove viene «il moto, questa malattia dell’Essere»?

In poche, semplicissime righe, Sartre ci fornisce la piccola chiave che apre tutte le porte della sua grande filosofia: cioè, la sua posizione decisamente idealistica. Egli ammette bensì che il mondo materiale esista (e in questo senso potrebbe pretendere di essere un materialista), ma pensa che l’essere di questo mondo materiale sia un puro esserci: cioè, che questo mondo, in sé, sia statico, immobile, morto, e che riceva il movimento, l’animazione, la vita, solo dal di fuori, da qualche cosa di diverso. Il «materialismo di Sartre» è quindi un falso materialismo, un materialidealismo, e più oltre mostreremo che il suo dualismo e quello di tutta la filosofia borghese.

A chi ritenga temerario condannare Sartre in base ad una così umile prova, non sarà difficile trovarne tutte le conferme che si vuole. Senza neppure aprire L’Essere e il Nulla, in cui il suddetto dualismo è svolto in modo sistematico ma piuttosto confuso, ci si può rifare a Materialismo e rivoluzione. Qui Sartre, essendosi chiesto che cosa sia «la materia» per il marxismo, e avendo pescato in Engels la risposta: È la materia di cui parlano gli scienziati, scoppia a ridere: «Ma l’avevo ben detto, io! Perché la materia di cui parlano gli scienziati è qualche cosa di morto, di inerte, un semplice substrato!»

Errore, signor Sartre, grave errore. Se avesse letto l’Antidühring invece di sfogliarlo distrattamente, lei avrebbe trovato la risposta di Engels: La materia è moto. E questa risposta non è stato Engels a inventarla. La diedero 25 secoli fa i filosofi-fisici della Grecia presocratica, quelli stessi che gettarono tutte le basi della scienza.

Studiando il problema del moto, essi mostrarono che è impossibile capire o rappresentare il moto come una successione di posizioni di riposo: cioè che di un corpo in movimento non si può dire: ora è qui e ora è là; è qui senza esserci. In realtà, esso non è in nessun luogo, ma passa, attraversa, lo spazio in maniera continua. Partendo da questa constatazione, essi mostrarono che l’aspetto fondamentale della materia è di essere moto, e che il «riposo» (relativo) è solo un aspetto accidentale e locale. Mostrarono che, se si supponesse la materia per se stessa come immobile, la sua messa in moto ad opera di un «intervento esterno» sfuggirebbe per ipotesi a qualunque descrizione ed analisi; ma che possiamo rappresentarci e comprendere il comportamento della materia senza supporre un «dio» per definizione incomprensibile, a condizione di concepire la materia come qualche cosa che per sua natura è moto, che è sempre stata e sempre sarà moto; ovvero, che bisogna rappresentarsi la materia come essa stessa causa del proprio movimento.

Insomma, essi stabilirono in modo del tutto generale il principio del materialismo dialettico, che Engels così riassume: Il moto è il modo di esistenza della materia. Mai e in nessun luogo c’è stata e può esserci materia, senza moto. La materia senza il moto è altrettanto impensabile quanto il moto senza la materia.

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Se i greci riuscirono così a individuare nel moto l’aspetto fondamentale della materia (e, di conseguenza, a mostrare la natura discontinua della materia e la natura continua dello spazio e del tempo) non fu né a caso, né perché fossero particolarmente geniali. Queste concezioni furono loro ispirate dai rapporti sociali e dal movimento della società, ed essi poterono dimostrarle con l’analisi teorica senza poterle verificare attraverso l’indagine sperimentale, allora troppo rudimentale. Ecco perché i fisici presocratici hanno l’aria di aver tirato tutto fuori dalla propria testa, dalla riflessione astratta, laddove il loro maestro in principii fisici era l’esperienza storica.

La società greca volgeva allora verso la fine di un periodo di profondi sconvolgimenti, quel periodo di transizione fra la società gentilizia e la società schiavistica, che vide la distruzione dei rapporti sociali senza sfruttamento basati sulla consanguineità e lo sviluppo della proprietà privata, del lavoro servile, e dello Stato. Mentre la scienza egiziana o caldea si ispirava ad uno stato stabile in cui la tecnica di produzione e i rapporti sociali cambiavano solo con grande lentezza attraverso i millenni, la scienza greca subiva l’influenza di una società in rapido movimento. Aspetto fondamentale di questo periodo, il moto spingeva la scienza alla dialettica.

È interessante vedere come questo movimento sociale appariva alla società greca. Abbiamo, in merito, una testimonianza di prim’ordine: la tragedia greca, che non è un «sogno universale» (non è in tutte le società che il figlio sogna di «uccidere il padre e giacere con la madre») ma la rappresentazione della distruzione dei rapporti sociali basati sulla famiglia in senso lato. Esso ci mostra anche come questa distruzione si presenti: essa è sentita come un fatto atroce, che nessuno vuole, al quale tutti reagiscono, ma che si impone come una fatalità irresistibile.

Certo, assistere alla distruzione di una forma sociale armonica, e alla disumanizzazione dei rapporti sociali, era atroce, tanto più che, malgrado tutte le resistenze, essa si imponeva come un destino, con tutta la forza di un modo di produzione superiore, della possibilità di un rapido incremento delle forze produttive umane. Nessuno «l’aveva voluta»: essa scaturiva dallo sviluppo stesso della società. Qui, evidentemente, il teatro non poteva dire tutta la verità: che cioè la causa del movimento sociale era nella società stessa. Questo movimento era troppo crudele perché la società se ne sentisse responsabile. D’altronde, non poteva capirne il carattere positivo. Quindi, ne rese responsabili degli incomprensibili «dei».

È qui che Eraclito dà il cambio a Sofocle. Ciò che la società rifiutava di ammettere per se stessa, fa il suo ingresso trionfale in un campo in cui la questione della «responsabilità morale» non si pone: la teoria fisica. La materia è moto. Ecco la grande scoperta: la materia è essa stessa causa del moto.

Così possiamo dire che se, in quell’epoca, il movimento sociale non poteva ancora assurgere alla coscienza delle proprie leggi, generò tuttavia la coscienza del movimento della materia, il materialismo dialettico, che diverrà la base della nostra rappresentazione teorica coerente, estesa dalla materia fino alla società umana. E non è neppure un caso, o l’effetto di una «superiorità» astratta, se il materialismo dialettico venne presto sommerso dall’idealismo legato al nome di Platone: fu il trionfo e la stabilizzazione della società schiavistica ad imporre, anche in filosofia della natura, la propria struttura. Per il proprietario di schiavi, questi ultimi sono puri «oggetti», «cose» che gli appartengono e che sono mosse dalla sua volontà, mentre egli sente sé stesso come coscienza e volontà libera, che non è determinata da nulla, ma determina tutta l’attività sociale.

Le idee dominanti di una società sono le idee della sua classe dominante: lo schiavismo e, nello stesso tempo, lo sviluppo del commercio e del danaro, ricchezza astratta e quasi immateriale, impongono la concezione della materia come messa in moto da cause anch’esse immateriali e astratte, finché, posti di fronte alle contraddizioni insolubili implicite in una tale concezione del mondo, si giunge a negare (in teoria) ogni realtà alla materia, per farne (sempre in teoria) un semplice «riflesso» della Idea.

Non possiamo qui entrare nei dettagli della storia della filosofia che, come abbiamo visto, deriva dalla storia della società nel suo insieme, senza che, fra l’una e l’altra, vi sia coincidenza meccanica e istantanea. Ma, prima di arrivare alla filosofia borghese (e a Sartre, che non abbiamo dimenticato), dobbiamo ricordare brevemente il Medioevo.

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Dopo la decadenza e il crollo dell’Impero romano, l’Europa occidentale conosce un lungo periodo di sconvolgimenti e di crisi: la forma schiavistica si è distrutta, le antiche forme germaniche si sgretolano, l’instabilità e l’insicurezza regnano nelle campagne, la produzione agricola declina. La società cerca una nuova forma di produzione sufficientemente stabile: occorreranno dei secoli perché la trovi. Parallelamente, cerca una sua dottrina. E, se prenderà a prestito elementi delle ideologie schiavistica, giudaico-fenicia, cristiana, germanica ecc., l’aspetto fondamentale della sua dottrina sarà determinato da un problema essenziale: quello della stabilità. La struttura sociale del feudalesimo, con le sue categorie «fisse» e fortemente gerarchizzate, era una necessità per assicurare la produzione, e questa necessità sociale era rappresentata nel modo più naturale come una necessità trascendente, come la volontà divina, vertice teorico della piramide sociale che aveva dato un posto a ciascuno e aveva messo ciascuno al suo posto; forza soprannaturale che doveva garantire la stabilità della forma sociale. Beninteso, questa filosofia della società doveva riflettersi nella filosofia della natura; della stessa forza soprannaturale si pensa non solo che abbia creato il mondo, ma che gli abbia dato una forma immutabile ed eterna: dalla materia organica fino alla società, dal granello di polvere fino ai corpi celesti, tutte le categorie sono concepite come immobili, create una volta per tutte e quindi destinate ad esistere sempre.

Riprendendo il principio dell’idealismo, la teologia della società feudale – la scolastica – gli diede nello stesso tempo una forma «immobile». Disgraziatamente per i teologi che «discutevano del sesso degli angeli» (che cioè lavoravano al completamento della classificazione e nomenclatura  di un mondo supposto immutabile), la società non rimaneva immobile. Appena stabilito il feudalesimo, e avvenuti la risposta e lo sviluppo della produzione agricola, ecco che, dapprima sotto forma di capitale commerciale od usurario, cominciano a svilupparsi un nuovo rapporto di produzione, il capitalismo, ed una nuova classe, la borghesia. Questa forma «parassitaria» e quasi ai margini della società feudale sembrava, all’inizio, accessoria e controllabile. Ma celava in sé un enorme potenziale esplosivo e, prima lentamente, poi sempre più rapidamente, minò e distrusse la società feudale.

Perciò l’ideologia della società feudale, rappresentata dalla ideologia cattolica, cessò ben presto d’essere unanimemente accettata. Invece di imporsi naturalmente a tutti quale riflesso fedele dei rapporti sociali (come per esempio il confucianesimo in Cina, e le religioni azteca o egizia), essa divenne preda di ogni specie di «eresie» e finì per imporsi solo grazie all’Inquisizione, agli autodafé e ai massacri. Ma non era il Diavolo che animava gli eretici: era la lenta ma irresistibile spinta di una nuova forma di produzione.

Questa nuova forma di produzione, questa nuova classe, aveva bisogno di una sua dottrina, tanto in filosofia della natura, quanto in filosofia della società. Ma, contrariamente a quanto era accaduto nelle forme sociali anteriori, la borghesia non riuscì mai a costruire una teoria coerente – poco importa se vera o «falsa» – che abbracciasse, sulla base di un principio unico, tutti gli aspetti del mondo. La dottrina della borghesia fu sempre, ed è, una dottrina dualistica e contraddittoria. In modo forse un po’ sbrigativo, si può dire che doveva essere così: un modo di produzione che porta in sé la sua propria antitesi, non può che riflettersi in un’ideologia anch’essa antitetica.

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In che cosa consiste, il dualismo del pensiero borghese? Schematizzando, si può dire che esso è materialista in filosofia della natura e idealista in filosofia della società umana. Beninteso, queste due concezioni non possono coesistere pacificamente: ciascuna va per la sua strada; impossibili da conciliare in una dottrina unitaria, esse cercano ciascuna di generalizzarsi e di soppiantare l’altra. Ma questo «duello fra idee» ha un arbitro del tutto materiale: la società borghese, le necessità obiettive dello sviluppo e della conservazione del capitalismo. A nulla servono gli sforzi d’intelligenza, di penetrazione, di sottigliezza, di astuzia: è l’arbitro che decide! E decide, anzitutto, che nessuna di queste concezioni deve soppiantare l’altra, perché ha bisogno di entrambe; in secondo luogo, che, in base agli imperativi del momento, darà la preminenza o a questa, o a quella.

Ha bisogno di entrambe. Il capitalismo ha bisogno del materialismo in filosofia della natura. Ne aveva un bisogno estremo soprattutto all’inizio della sua parabola, all’epoca del passaggio dal capitalismo commerciale od usurario al capitalismo produttivo, passaggio che esigeva un rapido sviluppo delle forze produttive, cioè del dominio sulla natura, e perciò una maggior conoscenza di questa e delle sue leggi: la scienza. Ora, la scienza è materialista o non è nulla: essa suppone che il comportamento della natura non derivi da «decisioni divine», libere e imperscrutabili, ma sia prevedibile, perché dovuto a proprietà e leggi inerenti alla natura stessa.

Così, la spinta verso l’aumento della produttività del lavoro imponeva il rifiuto del Principio Divino in filosofia della natura: con lo sviluppo della scienza, il capitalismo attaccava la società feudale su due fronti – creava le condizioni tecniche dello sviluppo del suo modo di produzione, e nello stesso tempo minava e gettava il ridicolo sul principio divino, custode dell’ordine sociale. Perciò è in quest’epoca che la borghesia, allora classe rivoluzionaria, si spinge più avanti sulla via del materialismo, che serviva nello stesso tempo i suoi bisogni economici e la sua lotta ideologica contro il feudalesimo. Essa stessa avrebbe voluto presentarsi come assolutamente ed esclusivamente materialista: in realtà, malgrado i tentativi nei suoi migliori teorici (per es. Diderot), non lo era e non poteva esserlo.

Materialista contro il feudalesimo, essa ridiventava idealista quando era in gioco la costituzione della sua organizzazione sociale. Il principio divino, che aveva cacciato dalla filosofia della natura, essa non poteva cacciarlo dalla filosofia della società; al massimo, poteva modificarlo conformemente ai suoi bisogni. Dio non esisteva più, ma gli attributi divini erano attribuiti a tutti gli uomini: la struttura sociale non era più fissata da Dio ma dai cittadini, tutti dotati di Ragione, tutti liberi ed uguali, tutti capaci di decidere liberamente in base alle proprie, libere Idee. Ponendo il famoso principio democratico, che avrebbe dovuto portare all’armonia sociale, al regno della Ragione, pretendendo di determinare il movimento della società grazie alle idee degli individui, ad opera della «volontà del popolo» invece che ad opera della volontà divina, la borghesia si è risolutamente affermata idealista in filosofia della società – idealista quanto la vecchia teologia, sebbene in forma diversa. E non poteva far altro.

Questa concezione idealistica dell’uomo e della società, lungi dall’essere un «errore» dei filosofi, era insieme il riflesso dei rapporti che il capitalismo impone alla società e il fondamento teorico dell’organizzazione politica, dello Stato che meglio rispondeva ai suoi bisogni. La celebre divisa della rivoluzione francese: Libertà – Eguaglianza – Bentham (completava Marx!) riflette puramente e semplicemente le esigenze del rapporto mercantile: venditore e compratore devono essere liberi, e lo scambio avvenire a valori eguali; in questo commercio onesto e «giusto» tutti guadagnano, dicono i borghesi (Krusciov e Mao inclusi!); è la grande Fratellanza. Del resto, questa bella libertà non è solo del borghese, libero proprietario del capitale; è anche del proletario: il capitalismo ha «liberato» il produttore da tutti i legami con la terra, con i mezzi di produzione e con i prodotti, il che lo costringe a vendere il suo unico bene, la sua forza di lavoro; a venderla liberamente e al suo valore: ecco la base dello sfruttamento capitalistico, della schiavitù salariale.

Dichiarare che l’uomo così incatenato e sottomesso al capitale è munito di uno Spirito libero e sovrano che potrà determinare il movimento della società, è la grande mistificazione democratica, la più sicura garanzia dell’ordine borghese. Non possiamo insistere su questo punto, che d’altronde è stato sviluppato in molti testi di partito (vedi Il principio democratico); volevamo solo ricordare che l’idealismo non è un «errore di ragionamento», ma una necessità economica, sociale e politica bell’e buona.

Ecco dunque la filosofia borghese in possesso di due principii contraddittori. Essa non può rinunziare né all’uno né all’altro; e neppure trovare fra loro un compromesso stabile. Abbiamo già visto che, nel periodo prerivoluzionario della borghesia, quello che era messo in primo piano era piuttosto il materialismo. Nel periodo attuale di putrefazione del capitalismo la situazione si capovolge. La borghesia cerca bensì di accrescere sempre più il suo apparato produttivo, e quindi ha sempre bisogno della scienza materialista: ma il suo problema essenziale, ora, è di mantenere il potere politico, di resistere all’assalto rivoluzionario del proletariato. Ed ecco l’idealismo prendere la testa del pensiero borghese, scacciando il materialismo perfino dal campo propriamente scientifico. Il fenomeno non è «nuovo»; nell’Antidühring, Engels notava già che lo sviluppo delle scienze spingeva queste al materialismo dialettico, sola rappresentazione adeguata della realtà, ma che questa tendenza era contrastata dall’ideologia borghese metafisica che si imponeva socialmente al cervello degli scienziati. Oggi, tuttavia, questa tendenza si estende sempre più, gettando gli «scienziati» nella perplessità e nello smarrimento, e la scienza tanto glorificata nell’impotenza.

In «filosofia pura», la tendenza è ancora più netta, e si misura tutto il cammino percorso a ritroso dal pensiero borghese paragonando un Diderot, che avrebbe voluto estendere all’uomo la concezione materialista, e un Sartre che vuole estendere l’idealismo alla stessa materia. Siamo così arrivati al punto in cui possiamo nuovamente occuparci di Sartre, non certo dell’individuo Sartre, che qui non c’interessa più dell’individuo Diderot, ma di Sartre come espressione, come portavoce e come teorico, di una classe.

Note

La genesi del capitalismo e dell'imperialismo, e le sue ripercussioni sull'evoluzione dell'Indonesia Pt.1

Il bagno di sangue proletario da cui esce, o meglio è ancora sprofondata l’Indonesia, è l’ultimo anello di una tragica catena che ci proponiamo qui di documentare, ad illustrazione della pirateria capitalistica e a riconferma del programma rivoluzionario marxista.

Il vastissimo arcipelago che forma l’attuale Indonesia (3.000 isole, di cui solo 1.000 abitate) appare dal punto di vista del clima, della fauna, della flora uno di quegli eldoradi naturali donati dagli dei alla felicità dell’uomo. Su 1.900.000 km² da Sabang a nord di Sumatra fino a Merauke nella Nuova Guinea Occidentale vivono 82.500.000 abitanti, alla densità media di 44 abitanti per km² (cifre del 1958). La temperatura è costante e uniforme (26,2° a Pontianak a nord-ovest di Kalimantan e a Kupang nell’isola di Timor; a Djakarta 26,4° in maggio e 25,5° in gennaio), e ancor oggi il 70% della superficie delle isole orientali è ricoperto di foreste (l’80% a Kalimantan, il 60% a Sumatra, il 25% a Giava).

Ma già le cifre che forniscono la densità della popolazione offrono un’idea degli sconvolgimenti storici cui sono soggiaciute le popolazioni delle “isole felici”. Se la densità media è di 44 ab. per km², essa tocca gli 80 nelle Molucche, i 65 nelle isole della Sonda, i 30 a Sulawesi (o Celebes), i 25 a Sumatra, i 7 nel Kalimantan (o Borneo). A Giava si concentrano circa i due terzi della popolazione, con una densità di 410 ab. per km².

Molte cose sono cambiate, certo, per gli abitanti delle “isole felici”, dal periodo in cui su di esse dominava il dispotismo asiatico del regno di Srivijaya, fondato sulle comunità di villaggio fino a quando fu loro imposto, attraverso alterne vicende, infami, sanguinose e feroci, il sistema coloniale, «il dio straniero che salì sull’altare accanto ai vecchi idoli dell’Europa e che un bel giorno con una spinta improvvisa li fece ruzzolar via tutti insieme e proclamò che fare del plusvalore era il fine ultimo e unico dell’umanità» (Karl Marx, Il Capitale, Libro 1, Sez. VII, Capitolo 24).

I

L’Indonesia precoloniale

Tralasciando le congetture intorno all’antichissima permanenza della specie umana nelle isole dell’arcipelago indonesiano (nel 1891 fu scoperto nella pianura di Trinil, a nord-est di Sumatra, il famoso Pitecantropo, un altro venne ritrovato a Giava), soffermiamoci sul periodo che va dal X al XIII secolo, che vide il fiorire del regno di Srivijaya, espressione del dispotismo asiatico e basato sulla tipica comunità di villaggio (dessa) sopravvissuta fino alla fine dell’800. Vedremo poi attraverso quali infamie, con quali metodi feroci, i cristiani colonizzatori, portoghesi, francesi, inglesi, olandesi, riuscirono nel corso di quattro secoli ad inculcare ai contadini delle “isole felici” il principio “naturale” della proprietà privata, obbligandoli col saccheggio, la rapina, il massacro, ad abbandonare il sistema tradizionale della comunità di villaggio.

Con la caduta del Regno di Srivijaya, e al sorgere nel XII sec. dell’impero navale costituito dal Regno di Modjopahit, si giunge alla penetrazione dell’Islam nelle isole dell’arcipelago indonesiano. A differenza di quanto avvenne altrove, ad esempio in India, la diffusione dell’islamismo fu rapida e sicura, così che oggi l’88% della popolazione indonesiana è di religione musulmana. Sul piano sociale interno, la nuova religione portò alla scomparsa del sistema delle caste.

A metà del secolo XIII si costituiscono nel nord di Sumatra i primi Stati musulmani. Quando nel 1511 i portoghesi faranno la loro comparsa in queste regioni si troveranno di fronte tre potenti regni musulmani: il sultanato di Atjeh (Sumatra), di Demak (est di Giava), di Ternate (nelle Molucche). Interessante è che le cronache riferiscano come nel 1414 fosse principe di Malacca un musulmano, Mohammed Iskandar Shah: interessante perché la Malacca rappresentava la possibilità di controllare il commercio delle spezie dalle isole dell’est all’India.In realtà, portatori dell’islamismo in Indonesia furono i pirati e i mercanti arabi, persiani e indiani del Sind e del Gujarat. Scopo unico dei regni musulmani di Malacca, di Atjeh, di Demak, di Ternate era difendere il monopolio del commercio delle spezie. Per dare un’idea dei profitti assicurati da tale monopolio ricordiamo che ad esempio il prezzo dei chiodi di garofano (diffuso soprattutto nelle Molucche, a Ternate, Tidore, Halmahera) raddoppiava nel solo viaggio dalle Molucche alla Malacca, e subiva un ulteriore aumento dalla Malacca all’Europa.

L’impero commerciale portoghese – Aurora dell’era della produzione capitalistica

Lo svolgimento dell’artigiano in capitalista industriale, nell’Europa del XV secolo, rappresentava un processo troppo lento di fronte alle esigenze commerciali create dal mercato mondiale, allora in via di formazione. Esso procedeva, come scrive Marx nel capitolo citato del Capitale, “a passo di lumaca”; la società feudale nelle campagne, corporativa nelle città, costituivano i suoi limiti. Gli stessi limiti incontravano al loro sviluppo le due forme del capitale che il Medioevo aveva ereditato conservandole da precedenti formazioni economiche: il capitale usurario e il capitale commerciale. Tali barriere dovevano essere spezzate, e lo furono, «con la violenza… levatrice di ogni vecchia società, gravida di una nuova, essa stessa una potenza economica» (Marx, Il Capitale, Libro I, Capitolo 24). «La scoperta delle terre aurifere e argentifere in America, lo sterminio e la riduzione in schiavitù della popolazione aborigena, seppellita nelle miniere, l’incipiente conquista e il saccheggio delle Indie Orientali, la trasformazione dell’Africa in una riserva di caccia commerciale delle pelli nere, sono i segni che contraddistinguono l’aurora dell’era della produzione capitalistica».

Tali le parole di Marx intorno alla «incipiente conquista e saccheggio delle Indie Orientali» realizzati nel corso del XVI secolo dai navigatori portoghesi. Esso segna l’aurora dell’era della produzione capitalistica. Albuquerque, l’avventuriero portoghese conquistatore di Goa nel 1510, occupa nel 1511 la Malacca, impiegando la più brutale violenza contro le popolazioni locali, e invia Francesco Serao nelle Molucche, centro della produzione dei chiodi di garofano. Queste isole avevano già attirato l’attenzione degli spagnoli (nel 1521 vi era approdato Magellano favorevolmente accolto dal sultano di Tidore), i quali le abbandonarono nel 1529.

Nonostante la violenza cui i portoghesi ricorsero nella politica di espansione commerciale (nel 1550 il governatore portoghese fece assassinare il sultano di Ternate, provocando una insurrezione) i metodi da essi impiegati per assicurarsi il monopolio del commercio delle spezie consistevano essenzialmente in una serie di accordi con i regni mussulmani dell’arcipelago. Nel 1521 venne creato un banco portoghese a Ternate; in seguito stipularono compromessi con il sultano di Atjeh per il pepe, e contratti commerciali nelle Molucche con il sultano di Ternate. A questi metodi, si accompagnavano quelli violenti dell’annessione. Timor fu occupata, così a Giava, gli Stati di Gresik, Panarukan e Cheribon (oggi Cirebon). La concorrenza degli altri Stati commerciali europei (gli Spagnoli occuparono le Filippine e fondarono Manila nel 1517, gli inglesi giunsero con Drake a Ternate e ripartivano con ingenti carichi), fece salire enormemente il prezzo delle spezie. Secondo Jean Bruhat, Histoire de l’Indonésie (Presses Universitaires de France, 1958) il prezzo delle spezie sarebbe addirittura triplicato dopo l’arrivo dei portoghesi. Giganteschi profitti furono dunque accumulati nel periodo che corrisponde alla formazione dell’impero commerciale portoghese, grazie al monopolio del commercio delle spezie imposto con la violenza nelle Indie Orientali, e tali profitti si riversarono in Europa, favorendo la genesi del capitale industriale.

Da un lato, il capitale usurario e commerciale europeo aveva trovato, al di fuori degli impacci costituiti dalla costituzione feudale delle campagne e dalla costituzione corporativa delle città, libero campo d’impiego nelle Indie Occidentali: la ferocia dei metodi da esso impiegati apparirà idilliaca, quando la paragoneremo a quella caratteristica del sistema coloniale corrispondente al periodo della manifattura e della grande industria.

Dall’altro lato, i profitti accumulati attraverso il monopolio del commercio delle spezie, riversandosi in Europa passando da Spagna e Portogallo ad Olanda, permetteranno il sorgere delle prime manifatture e del capitale industriale. Scrive Marx, nel citato Capitolo 24 del Capitale: «Con i debiti pubblici è sorto un sistema di credito internazionale che spesso nasconde una delle fonti dell’accumulazione originaria di questo o di quel popolo. Così le bassezze del sistema di rapina veneziano sono ancora uno di tali fondamenti arcani della ricchezza di capitali dell’Olanda, alla quale Venezia in decadenza prestò forti somme di denaro. Altrettanto avviene fra l’Olanda e l’Inghilterra».

Segnando l’aurora dell’era della produzione capitalistica, l’impero commerciale portoghese delle Indie Orientali ne inaugura anche i metodi economici, così come l’alba annuncia i raggi del sole: risulta infatti che i commercianti portoghesi, non paghi del risultato ottenuto facendo triplicare il prezzo delle spezie, quando la produzione locale superava le possibilità di trasporto e le richieste del mercato distruggevano i surplus sul luogo onde evitare una caduta di prezzi. A ragione Camõens poté cantare «il pepe ardente, il fiore essiccato di Banda, la noce moscata e il nero garofano che illustrano la novella isola Molucca». Il “pepe ardente”, in realtà, i commercianti portoghesi lo ardevano quando la sovrapproduzione ne minacciava i prezzi, illuminando con queste e altre fiamme la “novella isola” Molucca.