Il risveglio della combattività proletaria
Il ravvivarsi della lotta del proletariato contro le classi dominanti e le istituzioni borghesi è un fatto di indole internazionale le cui confortanti manifestazioni si vanno sempre più intensificando. Ovunque alla recrudescenza della crisi del capitalismo e al fallimento clamoroso di tutti tentativi che i governi borghesi fanno per rimediarvi, rispondono movimenti e agitazioni del proletariato in cui l’elemento economico e quello politico continuamente confluiscono.
La situazione italiana è troppo interessante perché in queste note noi non siamo ancora una volta costretti a fermarci su di essa. La fine del mese di novembre e il principio di dicembre hanno segnata la continuazione nello sviluppo dei grandi scioperi proletari che tutti rispondono alle svariate manifestazioni della offensiva borghese, e tutti tendono ad organizzare in un’azione unitaria la riscossa contro di essa, malgrado le male arti dei dirigenti sindacali controrivoluzionari.
Nella precedenza rassegna della situazione prospettavamo il momento in cui, composto nel modo che tutti sanno lo sciopero generale ligure di solidarietà con quei metallurgici, restavano in lotta i metallurgici della Venezia Giulia, insieme con tutti i lavoratori della regione che avevano attuato uno sciopero generale di solidarietà.
Lo sciopero generale della Venezia Giulia si è chiuso come era assai facile prevedere, ossia con una sconfitta sulla questione della difesa dei salari. L’agitazione dei metallurgici contro l’attacco padronale alle conquiste dei precedenti concordati non poteva essere condotta dai dirigenti della Federazione Metallurgica in modo più disastroso. Respinta la proposta dei comunisti per lo sciopero generale nazionale di tutte le categorie contro tutte le manifestazioni della offensiva borghese, respinta anche la proposta di sciopero nazionale metallurgico, prospettata dei comunisti nel Comitato di agitazione eletto al Consiglio nazionale metallurgico di Roma, sempre con la riserva che solo nel movimento di tutte le categorie era possibile trovare seri affidamenti di vittoria proletaria, i dirigenti hanno apertamente operato nel senso di stroncare ad ogni costo quella tendenza all’allargamento del movimento che era nella eloquenza dei fatti della situazione, ed hanno lasciato in modo colpevole che le forze operaie fossero battute separatamente malgrado la solidarietà data con grandissimo slancio ai metallurgici da tutti i lavoratori.
A riprova della loro tattica e riformisti della FIOM e della C.G.L. non possono arrecare alcuna conferma degli ipocriti argomenti prudenziali da loro invocati a Verona e altrove. Ovunque il proletariato ha dimostrato di sentire pienamente la necessità di lottare affondo contro le richieste di riduzioni salariali e le altre provocazioni e aggressioni borghesi. Come lo sciopero ligure così quello triestino sono mirabilmente riusciti, e non è all’ incertezza della falange proletaria ma unicamente al contegno dei capi delle grandi organizzazioni che la sconfitta va imputata.
Lo sciopero nazionale metallurgico che sembrava imminente al principio di novembre, e lo sciopero di solidarietà coi metallurgici lombardi a Milano, se non fossero stati silurati sarebbero indubbiamente riusciti: ma occorreva silurarli non perché simili movimenti non offrissero il mezzo di vincere la battaglia per i salari, ma perché sboccavano per forza di fatti nell’attuazione della tattica comunista, che per il suo contenuto rivoluzionario doveva essere sabotata dai capi sindacali. Questi hanno preferito, come già dicemmo, chiudere a condizioni cattive la vertenza di Milano, e per diretta conseguenza del loro contegno a condizioni peggiori quella della Liguria ( riduzione del 9% sulle paghe) e a condizioni pessime quella di Trieste ( oltre il 15%). Nei primi due casi hanno con le loro solite arti cercato di mascherare la sconfitta, poiché le organizzazioni locali erano nelle mani di riformisti, nel terzo hanno tentato di gettare la colpa sui comunisti che dirigono il proletariato giuliano, ma il loro gioco fallisce miseramente poiché gli stessi capi della FIOM non hanno potuto non riconoscere questo: non era possibile non fare lo sciopero metallurgico, come non era possibile non fare lo sciopero generale di Trieste, a cui i socialisti locali hanno aderito. Se queste lotte in cui il proletariato ha fatto tutto il suo dovere, chiudendole senza alcun inizio di disgregazione delle sue forze e della sua combattività, non hanno dato un risultato favorevole, come negare che questo è una conseguenza della tattica socialdemocratica di isolare le agitazioni che naturalmente tendevano ad ampliarsi e ad integrarsi su scala nazionale, con i comunisti avevano preveduto e sostenuto?
Concordare a Milano mentre si lotta a Genova e Trieste chiudere lo sciopero generale ligure nel momento in cui la effettuazione di esso aveva reso, per indiscussa opinione, ineluttabile la proclamazione di quello di Trieste, ecco veri atti di tradimento che non possono spiegarsi con la impreparazione e debolezza delle masse operaie, ma si spiegano con l’argomento opposto, e cioè lo slancio di queste minacciava seriamente l’esercito attaccante del capitalismo di quella battaglia campale che è supremo compito dei riformisti di scongiurare con tutti i mezzi.
Ma gli insegnamenti dei fatti non si fermano a questo. Durante la sciopero di Trieste, caratterizzato da continui scontri tra le squadre comuniste e quelle fasciste, queste ultime, più di una volta battute malgrado la connivenza delle autorità, perpetrano un delitto orrendo con la esecuzione capitale di un organizzatore dei tipografi catturato da un numero soverchiante dei bianchi, e che nessuna parte preminente aveva nella lotta proletaria. L’indignazione dei lavoratori di tutta Italia prorompe nello sciopero dei tipografi, attuato da un capo all’altro della penisola senza alcun accenno di defezioni. Ancora una volta mentre il movimento è nella piena efficienza, mentre le masse degli scioperanti convocate a comizio votano entusiaste per le parole d’ordine comuniste della continuazione della lotta e della estensione di essa a tutti i lavoratori, i capi confederali – dopo un giorno – stroncano lo sciopero che aveva formidabilmente impressionata la borghesia.
E le manifestazioni della combattività proletaria che si risveglia per gli stessi colpi dei bianchi e del governo, continuano ancora. Adunate di ferrovieri insistono nel chiedere la sciopero generale come risposta alle provocazioni del governo in punizione dei capi dello sciopero del napoletano ( per la verità rettifichiamo al proposito che il referendum di cui era cenno nella cronaca precedente effettivamente non ebbe luogo ), ma i capi riformisti, sindacalisti e anarchici del sindacato dei ferrovieri lasciano trascorrere nell’inerzia il momento decisivo e deludono l’attesa dei lavoratori pronti alla battaglia. A Torino uno sciopero generale di 24 ore sostenuto anche dai socialisti locali risponde alla feroce condanna inflitta agli imputati nel processo per la occupazione nelle fabbriche, ma vano sarebbe attendere dalla Confederazione del Lavoro il proposito di un’ azione nazionale su tale base.
Nuovi delitti fascisti nel milanese e nel cremonese esigerebbero la immediata proclamazione dello sciopero generale a Milano e nella provincia circostante, ma ancora una volta l’impulso generoso degli operai e dei contadini è stroncato dalla viltà socialdemocratica, che a stento arriva a concepire la possibilità di uno sciopero nella metropoli lombarda per l’ostruzionismo che l’autorità statale fa verso l’amministrazione socialista del comune di Milano, e forse rinculerà anche dinanzi a questa azione.
Il fermento delle masse operaie cresce dunque ogni giorno. In questa situazione che i comunisti si sforzano, coi criteri da noi più volte sottolineati, di volgere ai suoi sviluppi rivoluzionari, i socialisti continuano a demolire le formazioni spontanee dell’esercito proletario di lotta, a fare un’opera di complicità con i borghesi e il governo. Più che mai si dimostra vero come la lotta degli operai e dei contadini italiani debba condursi su due fronti, contro l’attacco della classe dominante e contro il tradimento dei capi riformisti.
La riapertura del parlamento non ha dato luogo a fatti che abbiano sapore di novità, tali non potendo essere le quotazioni che al gioco parlamentare si fanno delle sorti del ministero democratico-reazionario dell’ex socialista Bonomi, compagno di lista dei fascisti mantovani.
Questo periodo è stato però caratterizzato da una viva attività della pattuglia parlamentare comunista. Con un discorso del compagno Graziadei il nostro partito ha preso posizione dinanzi ai problemi della politica interna, riaffermando le sue tesi fondamentali rivoluzionarie e denunziando anche dalla tribuna parlamentare il disfattismo dei socialdemocratici, e con uno del compagno Garosi si è schierato a difesa della repubblica dei soviet di Russia svelando i dietroscena della politica che conduce verso di essa lo Stato italiano.
Grandissima e felice eco ha avuto tra i lavoratori la partecipazione alle sedute della Camera del compagno Misiano, che già i fascisti avevano proclamato indegno di penetrarvi. Alle minacce di costoro si è aggiunta – ben altrimenti efficace – la reazione legale, che si serve quando le convenga della stessa illegalità, con la condanna del compagno Misiano per diserzione, e la conseguente manovra di annullare la sua elezione. Ma l’arbitrio non ha potuto svolgersi così rapidamente da evitare che in parecchie sedute intervenisse il deputato comunista. I fascisti hanno risposto con una tattica che, mentre li ha coperti di ridicolo, ha realizzato l’obiettivo dell’azione comunista in parlamento ossia il sabotaggio del funzionamento di tale istituzione, poiché ogni volta che il Misiano appariva improvvisamente, i fascisti e altri deputati di destra uscivano dall’aula e per la mancanza del numero legale la seduta doveva essere sospesa. Il contegno e le dichiarazioni dei deputati comunisti in queste circostanze sono stati assai favorevolmente accolti dalle masse, mentre la stampa borghese non nascondeva il vivissimo dispetto che l’andamento delle sedute della Camera, e la effettuazione di attesissime votazioni politiche, dovessero restare condizionati alle decisioni dell’occulto potere rappresentato dal Comitato Esecutivo del partito comunista, divenuto negli ultimi giorni il vero incubo di tutti i politicanti parlamentari e giornalistici della Capitale.
Materiali sulla storia della rivoluzione russa Pt.1
Crediamo di far cosa gradita ai lettori di Rassegna Comunista anticipando loro la conoscenza del presente scritto, che uscirà presto come prefazione dell’edizione italiana dei ” Materiali ” a cura della Libreria editrice del P.C. d’Italia.
Il titolo suo indicato è quella di un’importantissima collezione edita dalla benemerita ”Arbeiterbuchhandlung” di Vienna, e che la ” Libreria editrice del P.C. d’Italia” si propone di riprodurre a mano a mano in italiano. Finora sono usciti nell’edizione tedesca i seguenti scritti:
1) LENIN, Die drohende Katastrophe und wie soll man sic bekampfen? (La catastrofe imminente: come evitarla?);
2) LENIN, Werden die Bolscheviki die Staatsmacht behaupten? (Potranno i Bolscevichi mantenere il potere?);
3) LENIN, Die Lehren der Revolution (Gli insegnamenti della rivoluzione);
4) LENIN, Zur Agrarpolitik der Bolsceviki ( Sulla politica agraria dei Bolscevichi);
5) TROTSKY, Der Charakter der russischen Revolution (Il carattere della rivoluzione russa);
6) LENIN, Aufgaben des Proletariats in unserer Revolution ( I compiti del proletariato nella nostra rivoluzione).
Si tratta di alcuni tra i più importanti scritti dei due massimi teorici e pratici della rivoluzione russa, pensati e in gran parte pubblicati in quel critico e fortunoso periodo, di capitale importanza per lo sviluppo della rivoluzione mondiale del proletariato, che va dal marzo al novembre del 1917, dalla rivoluzione piccolo-borghese, democratica, patriottarda, alla sua trasformazione in rivoluzione proletaria, socialista, internazionalista, prima e decisiva tappa della rivoluzione mondiale. Già il tempo in cui questi scritti furono composti, e il nome degli autori, basterebbero a metterne in rilievo la eccezionale importanza, ma questa risiede ben più nella materia di essi, e nel modo con cui è trattata. Infatti essi sono i documenti autentici del modo con cui i grandi avvenimenti della più grande rivoluzione che registri la storia si sono rispecchiati nella coscienza di due tra i maggiori artefici di essa, vi hanno acquistato forma di convinzione teorica determinatrice di azione pratica alla luce del metodo marxista, per diventare infine cardini e leve dell’ulteriore sviluppo della rivoluzione medesima.
Marx osservò acutamente che le rivoluzioni proletarie presentano uno speciale carattere di criticare e rivedere continuamente se stesse, i loro metodi, i loro risultati, i loro errori. Infatti, soltanto la rivoluzione proletaria appare nella storia come un movimento cosciente dei suoi fini e dei suoi mezzi. La rivoluzione russa presenta in modo spiccatissimo questo carattere. Nessun uomo politico ha così attentamente e realisticamente quanto Lenin pesato tutte le probabilità di un’azione, calcolato i rapporti reciproci tra le forze in essa impegnate o interessate: nessuno, neanche i più maligni critici borghesi, ha saputo con altrettanta acutezza, praticità e sincerità segnalare gli errori della rivoluzione, le sue debolezze, le sue sconfitte, cioè in gran parte le proprie sconfitte. Questi scritti perciò presentano anche un particolare interesse come modelli di autocritica marxista, di quella critica che non è frutto di disperazione o di scetticismo, ma di quella fede nella rivoluzione, che isola gli errori al fine di trarne insegnamento per l’azione futura. Essi costituiscono la base su cui dovrà essere edificata, quando sarà possibile tentarlo, la ricostruzione storica della rivoluzione russa. Né soltanto a questo lato puramente teorico, retrospettivo, si limita l’interesse che questi scritti presentano per chiunque appartiene alla causa della rivoluzione proletaria. Ben più, essi hanno portata pratica, attuale, di primo ordine.
Essi trattano infatti e risolvono problemi, che si sono affacciati alla prima volta nel corso della rivoluzione russa, ma che sono indubbiamente destinati a risorgere, in forma più o meno modificata ma con un contenuto sostanzialmente identico, sempre che in un punto qualsiasi del mondo il proletariato sia sceso in lotta per la conquista del potere. Certamente, il proletariato russo si trovò, nel 1917, in condizioni che in parte verosimilmente non si riprodurranno più altrove: per esempio, di fronte ad una borghesia impreparata e disorganizzata, ad una piccola borghesia, specialmente rurale, incline a solidarizzare col proletariato rivoluzionario per insofferenza dei pesi insopportabili della guerra imperialista ecc. E quindi nei paesi dell’Europa occidentale la rivoluzione proletaria verosimilmente assumerà parvenze in parte diverse da quelle che ha avuto in Russia. Ma si tratterà soltanto di parvenze, di manifestazioni fenomeniche, modificate dalla diversità di clima storico, di una stessa sostanza sociale, di un unico movimento. E quindi i quesiti che si presentarono spontaneamente nello svolgersi della rivoluzione russa si riaffacceranno in sostanza dappertutto; e il modo autonomo, originale, con cui essi sono stati risoluti in Russia, dovrà necessariamente servire come base sperimentale per lo studio della soluzione di essi in ogni altro paese. La rivoluzione proletaria si troverà nell’Europa occidentale Condizioni migliori di quelle verificatesi in Russia anche per il fatto che essa potrà disporre appunto delle esperienze Russe, cementate dalla controprova della realtà, e potrà quindi evitare molti errori ed incertezze, risparmiare molti giri tortuosi, fissare con maggior sicurezza le mete raggiungibili ad ogni tappa del suo cammino.
Sotto un certo aspetto può darsi che la rivoluzione mondiale del proletariato si sia iniziata, come processo dialettico, con la guerra mondiale. Certamente, la fase iniziale di tale processo va ricercata anche in un tempo anteriore alla guerra, in tutto il decennio che la precedette e che fu caratterizzato dallo sviluppo del capitalismo verso il monopolio e dal conseguente continuo acuirsi dei contrasti in seno ad esso. A questa fase preparatoria della guerra imperialista e della rivoluzione corrispose, né poteva essere altrimenti, un crescente risveglio delle tendenze radicali, rivoluzionarie, del movimento operaio internazionale, segnato dalla reazione dell’ala sinistra della socialdemocrazia tedesca ( Luxemburg, Mehring e fino a un certo punto e per un certo tempo Kautsky ) contro il revisionismo dalla vittoria della tendenza bolscevica in seno alla socialdemocrazia russa, e da quella dell’ala intransigente del Partito socialista italiano, per non ricordare che i sintomi più appariscenti. Già nel 1909 Kautsky, nella ”Via al potere” riconosceva ”iniziata l’età della rivoluzione”. Ma, nonostante questi sintomi del nuovo orientamento della coscienza proletaria, fin allora per lunghi decenni assolutamente in balia del riformismo, soltanto lo scoppio della conflagrazione mondiale fece penetrare in gruppi sempre più numerosi di pensatori e dei lavoratori socialisti e la convinzione dell’avvento dell’età rivoluzionaria.
E ai primi tempi della guerra mondiale risalgono. Alcuni dei ”Materiali” che andiamo esaminando. Il primo quesito suscitato dalla guerra, in quanto concerneva movimento proletario, era questo: ”Che specie di guerra è questa?”
Della grande maggioranza dei socialisti in tutto il mondo, e specialmente dei due più importanti più ricchi di tradizioni dai partiti socialdemocratici, quelli di Germania e Francia, risposero che si trattava di guerra nazionale difensiva, contro l’imperialismo anglo-russo per gli uni e contro quello tedesco degli altri: e si accodarono alla rispettiva borghesia, scavandosi irreparabilmente la tomba. Altre minori correnti socialdemocratiche – variopinto miscuglio di irresoluti, di confusionari, di opportunisti – si dichiararono bensì più o meno contro la guerra, ma per motivi di umanitarismo e di pacifismo piccolo borghese, che non avevano rapporti con gli interessi del proletariato come classe in lotta permanente con una borghesia dominante e belligerante. L’esempio più vasto di tale atteggiamento fu offerto precisamente dal Partito socialista italiano, che per bocca di Lazzari, segretario del Partito e capo riconosciuto della tendenza ” intransigente ” allora predominante nel Partito, proclamò la formula: – ” non aderire alla guerra, ma non sabotarla”. In fondo, come si vede, anche questa tendenza si metteva sul terreno ”nazionale ”.
Contro il socialpatriottismo e il socialpacifismo – germe quest’ultimo del futuro centrismo – per lunghi anni non si sentì che la voce isolata di alcuni esuli russi sperduti e quasi ignorati nell’asilo svizzero. Ma questa vox clamantis in deserto trovò a poco a poco la via del cuore e del cervello del proletariato mondiale risvegliantesi a poco a poco, tra l’acre fumo sanguigno della guerra maledetta, e divenne la Diana della nuova vendicatrice età della rivoluzione proletaria. Infatti, fin dal principio della guerra Lenin e altri bolscevichi russi, e esuli dopo la disfatta della prima rivoluzione russa, si erano risolutamente schierati contro tutte le interpretazioni patriottiche od opportuniste della guerra allora dominanti quasi senza contrasto in seno a tutti partiti socialdemocratici ufficiali. In una serie di articoli, con passi tra il 1914 e il 1916 sulle riviste svizzere ”Sozialdemokrat” e ”Kommunist” (ripubblicati poi nel 1918 a cura del Soviet di Pietrogrado col titolo: ”G.ZINOVIEV e N.LENIN, Contro la corrente” in un volume, che merita di essere edito anche da noi), Lenin risponde risolutamente: no, la guerra non si combatte per l’indipendenza delle nazioni, per la difesa della patria, ma unicamente per vedere quale dei due gruppi dell’imperialismo di rapina, l’inglese o il tedesco, dovrà rapinare il mondo senza concorrenti: essa è il prodotto inevitabile dell’evoluzione del capitalismo giunto alla sua ultima fase, e l’opera nella rivoluzione del proletariato.
Non sappiamo resistere alla tentazione di riprodurre i passi relativi a tale questione contenuti nel ”Manifesto di sinistra di Zimmerwald ” (settembre 1915), opportunamente ristampato nei ” Materiali” ( Aufgaben, p.64). Esso fu redatto da Lenin in collaborazione con Zinoviev, Radek, Winter ( Lettonia), Hoglund ( Norvegia), Platten (Svizzera) e nella votazione avvenuta in seno alla Commissione di redazione nominata dalla Conferenza di Zimmerwald ebbe anche il voto di Trotsky e della Roland-Host.
La voce cominciava ad acquistar lena! Naturalmente, a questa proposta di manifesto, che rimase in minoranza con 12 voti contro 19, si guardarono bene dall’aderire i delegati italiani.
”La guerra mondiale è una guerra imperialistica, fatta per lo sfruttamento politico ed economico del mondo, per il dominio dei mercati, delle fonti di materie prime, dei territori di collocamento di capitali ecc. Essa è un prodotto dell’evoluzione capitalistica, che a un tempo lega tutto il mondo in un unico complesso economico e lascia sussistere i gruppi capitalistici indipendenti, nazionali-statali, con interessi contrastanti”.
Ma con la constatazione del contenuto imperialistico della guerra era bensì chiusa la discussione con gli aperti socialipatriotti, non però con quella specie di essi -tanto più pericolosa e tanto abbondante specialmente in Italia e che fu la vera trionfatrice a Zimmerwald – la quale era bensì ”all’opposizione” contro la guerra e ne riconosceva il carattere imperialista, ma praticamente rifiutava di giungere alla logica conclusione nettamente esposta nel manifesto della sinistra che affermava:
”la soluzione non è la pace civile, ma la guerra civile”, la ribellione del proletariato contro il macello e contro il sistema sociale che lo determinava. Gli elementi centristi di Zimmerwald invece sostenevano la possibilità di mettere fine alla guerra senza la rivoluzione proletaria, mediante la pressione legale e pacifica del proletariato sui rispettivi governi (concetto che, come è noto, condusse al miserando fiasco dell’ abortita Conferenza di Stoccolma). A queste illusioni rispondeva il manifesto della sinistra: ”contro tutte le illusioni, secondo cui sarebbe possibile mettere le basi di una pace durevole e del disarmo mediante decisioni della diplomazia e dei governi, i socialdemocratici rivoluzionari debbano sempre ripetere alle masse popolari che tanto la pace duratura come la liberazione dell’umanità possono essere attuate soltanto dalla rivoluzione sociale”.
Alla testa del centrismo pacifista stavano i Kautsky, i Martof, i Grimm, i Modigliani ecc. E fu appunto Kautsky a formulare la teoria di tale tendenza. Egli infatti ammetteva bensì della guerra fosse imperialista e come tale dovesse venir combattuta, ma considerava l’imperialismo non come una manifestazione organica e necessaria del capitalismo, bensì come una malattia di esso, di alcune sue parti, come ” una politica ” del capitalismo, non come ” la politica ”; sicché si poteva combattere e vincere l’imperialismo – ecco la molla dell’opportunismo – porre dentro i quadri del capitalismo, senza dover rovesciare preventivamente questo. A questa tesi Lenin rispose con quel mirabile libero che è l’Imperialismo come più recente fase del capitalismo, che costituirà certo uno dei documenti più importanti di una futura collezione di ” Materiali della rivoluzione mondiale ”. La risposta suonava: ” No, l’imperialismo non è ” una politica ” che il capitalismo possa seguire oppure no, ma è l’essenza stessa del capitalismo, giunto alla sua attuale fase di capitalismo finanziario monopolistico: per conseguenza una lotta contro l’imperialismo ha significato solo quando essa si sia rivolta contro il capitalismo tutto intero, e miri a eliminarlo totalmente”.
Che cosa doveva sottentrare al posto del sistema capitalista di produzione abbattuto dalla rivoluzione proletaria? Già nell’ ”Imperialismo” Lenin aveva indicato come lo stesso capitalismo imperialista, con la sua intensa concentrazione della produzione, con gli sforzi verso una regolarizzazione e distribuzione sistematica di essa, dimostrava che le forze vive nell’economia evolvevano nella direzione di una produzione accentrata, socializzata; ma le forme precise, in cui questa trasformazione sarebbe avvenuta, e specialmente i gradi di transazione di necessari per pervenirvi e la sovrastruttura politica che a tali fasi avrebbe corrisposto, non potevano esser allora indiziati. Lenin, come Marx, non è né vuol essere un profeta, ma semplicemente un osservatore; è soltanto l’osservazione diretta delle vie spontaneamente scelte dalla rivoluzione proletaria poteva far riconoscere i contorni precisi che andrebbe assumendo la nuova società. Questo lavoro di osservazione e di riconoscimento non fu possibile se non quando la rivoluzione proletaria, secondo le previsioni di Lenin, effettivamente scoppio: e proprio dove pareva meno da aspettarsi, in Russia.