Commissioni interne e sindacati aziendali
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Categorie: Italy, Union Question
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Da qualche mese una grossa polemica è in corso fra le maggiori organizzazioni sindacali. La CISL chiede alla Confindustria la revisione dell’accordo istitutivo delle C. I. dell’ 8 maggio 1953, per ridurre u compiti di questi organismi o addirittura liquidarli, sostituendoli o affiancandoli con sindacati d’azienda; la CGIL non solo si oppone alla revisione proposta dalla CISL ma invoca il riconoscimento giuridico dell’accordo interconfederale in modo che le C. I. vengano istituite anche nelle aziende in cui tuttora mancano (e sono molte: a Milano, su 2135 aziende con più di 40 dipendenti, solo 696 hanno la C. I.), mentre circa le sezioni sindacali d’azienda è sulle stesse posizioni della CISL, cioè chiede al padronato di riconoscere questo nuovo “strumento” sindacale.
La riforma delle strutture organizzative sindacali non è certo fine a se stessa. Essa costituisce un punto d’approdo della politica sindacale delle grandi confederazioni, maneggiate come enormi macchine elettorali dai partiti che le dirigono. Naturalmente per i bonzi di tutti i colori, la politica seguita da sindacati è politica di classe, con la sola differenza che il “classismo” della CISL si attua indebolendo o eliminando le C. I., е quello della CGIL rinforzandole ed estendendone le competenze. Secondo la confederazione bianca, la presenza di due organismi nella stessa fabbrica genera interferenze ingombranti, sovrapposizioni negative, effetti dannosi; secondo la CGIL, le C. I. sono insostituibili per assicurare il rispetto dei contratti e delle leggi, e le sezioni sindacali di fabbrica sono necessarie per la rivendicazione di nuovi accordi aziendali integrativi di quelli stipulati a ” livello d’industria”. Non riporteremo tutti i termini e i cavillı della polemica in corso. Basti rilevare che, mentre (a parole) entrambe le confederazioni pretendono di voler fare sempre più e meglio una politica di classe, le reciproche accuse di aziendismo circa la funzione delle C. I. vengono tardivamente a confermare il giudizio negativo da noi sempre formulato nei riguardi di questo “istituto” e, pertanto, suonano condanna aperta della politica sindacale degli organizzatori “operai” bianchi e rosa.
Ha ragione la CISL di dire (guarda un po’ da chi viene la predica!) che le C. I. hanno posto in sott’ordine i sindacati (nelle grandi imprese, contro 1’80-90 per cento di adesioni alle elezioni delle C. I., sta il 30 per cento di iscritti ai sindacati) o, in parole povere, hanno avuto l’effetto di avvilire lo stimolo associativo derivante dall’istinto di classe, che naturalmente porta ogni lavoratore a stabilire legami attivi con tutti quelli di ogni altra azienda, categoria e paese. Ma se questa premessa è giusta, falsa è la conclusione che ne trae la CISL rivendicando il sindacato d’azienda. A che cosa si riduce, infatti, la “sindacalizzazione” così realizzata? Nel migliore dei casi, a una beffa pura e semplice, perché il classismo e ” la forza con la unità del movimento organizzato dei lavoratori” se ne vanno a farsi benedire, e non ne resta che una vuota e ipocrita demagogia. Sì, potremmo veder aumentare le tessere sindacali, ma queste varrebbero ancor meno delle poche odierne perchè prese dietro lusinghe corruttrici, o sotto più o meno tacite intimidazioni.
Che dire della CGIL? Essa, se riuscirà a conferire validità erga omnes all’accordo interconfederale istitutivo delle C. I. (come agli altri contratti collettivi che stabiliscono i salari minimi delle varie categorie), avrà fatto delle C. I. un organo con vere e proprie funzioni statali, del tutto simili a quelle dell’Ispettorato del lavoro. Secondo i dirigenti della CGIL, abituati a badare ai “fatti concreti” e non alle “formule”, ciò non deve scandalizzare nessuno né provocare la minima perplessità. Quanto al sindacato di fabbrica, le ragioni che lo giustificano sempre secondo i bonzi sono prima di tutto d’ordine economico. La contrattazione a livello d’industria essi dicono andava bene per l’immediato dopoguerra, quando si trattava di difendere in generale il tenor di vita delle masse, minacciato dall’inflazione; ma, con l’odierna stabilità economica e finanziaria, occorre tener conto delle diverse condizioni di lavoro e di produttività regnanti nelle singole aziende, e perciò « adeguarsi» nel senso di articolare le rivendicazioni e le iniziative sindacali. Inoltre, la presenza del sindacato nell’azienda risponde alla parola d’ordine dell’ultimo congresso della CGIL: ” realizzare compiutamente la Costituzione”. Ma il sindacato non deve sostituire la C. I., bensì affiancarla.
“Nell’ambito di loro competenza – l’azienda – ed entro i confini fissati dall’accordo istitutivo, le C.I. sono naturalmente organi di collaborazione. Non è forse così? Ora, sostituite alla C. I. il sindacato (non importa quale); affidate al Sindacato le funzioni attualmente riconosciute e definite alla C. I.; collegate fra loro questi organismi sindacali aziendali sul piano di categoria o anche solo di settore; cosa avrete ottenuto? Un sindacato corporativo e collaborazionista ».
Così si legge nel n. 41 del “Lavoro” il settimanale della CGIL.
Il ragionamento è giusto; ma, da una premessa esatta, la CGIL deriva, per bocca dell’articolista, una conclusione altrettanto fasulla sostenendo che la semplice sostituzione del sindacato alle C. I. (come vorrebbe la CISL) porta a degenerare il sindacato stesso, mentre il pericolo non sussiste più se il sindacato si introduce nell’azienda senza eliminare la commissione interna. Come e perchè? Nessuno lo spiega, ma è chiaro che, per lor signori, la ragione si trova nelle “virtù intrinseche” di un sindacato il quale, essendo « di classe», è per natura incorruttibile, e non diverrà mai collaborazionista, La CGIL, che diamine, non è una Trade Union!
Strani “concretisti” ! Essi spregiano le “formule”; ma, per risolvere la questione, eccoli rifugiarsi proprio nella “formula”, nella “definizione”, nello « schema », che astrattamente danno del proprio sindacato. E’ un comodo gioco di prestigio, ma che non inganna nessuno. Se fosse vero che la CGIL è un “organo di classe” e che le lotte di recente promosse da questa confederazione rispondevano a considerazioni e direttive di classe, era una ragione di più per difendere un simile “patrimonio” dai pericoli di infezione opportunistica necessariamente derivanti dal rinchiudere il sindacato nell’orizzonte angusto della fabbrica. L’aziendismo è un altro aspetto dell’opportunismo: costituite il sindacato di azienda, come se non bastasse la commissione interna, e avrete non uno ma due “organi di collaborazione” anche a prescindere dal carattere opportunista del sindacato nazionale.
La « svolta di qualità » che matura in seno al movimento sindacale non è dunque un passo avanti, è un ulteriore passo indietro. La CISL chiedendo di sostituire nelle fabbriche il sindacato alle C. I., e la CGIL rivendicando il sindacato nella fabbrica insieme con le C. I., perseguono una comune роlitica del più smaccato aziendismo. Pretendere che si tratti di una politica classista solo perchè il padrone osteggia il sindacato di azienda è demagogico: il padrone osteggia perfino le ultracollaborazioniste C. I., la sua vocazione essendo quella della dittatura più completa del capitale sul lavoro, e, il giorno in cui la Confindustria accettasse i sindacati nella fabbrica con o senza C. I. -, la natura di questi organismi diverrebbe identica a a quella delle commissioni interne: non sarebbero uno “strumento di potere operaio” ma un nuovo organo di collaborazione ufficiale.