Lavorare ma non troppo
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Da quando si è cominciato a parlare dei «preti-operai», è apparso chiaro che la classe dominante — e per essa la Chiesa — non avrebbe lasciato cadere un’iniziativa destinata a sguinzagliare i pastori nelle file del gregge delle pecorelle smarrite e a seminarvi un cattolico controveleno alla ideologia rivoluzionaria. Si trattava (e, come risulta dalla dichiarazione dell’episcopato francese del 14 novembre, a questo hanno appunto mirato i colloqui dei tre cardinali francesi col Santo Padre) soltanto di disciplinare il movimento, reagendo alle sue tendenze centrifughe, collegando più strettamente i «preti-operai» alla chiesa e alla parrocchia, migliorandone la preparazione ideologica e mettendoli in condizione di non dover dedicare tutta quanta la loro giornata al lavoro, — il tutto per evitare che i sacerdoti cadessero a loro volta vittime dell’infezione rivoluzionaria e classista.
Sia detto per inciso, quest’ultima clausola (come dice la dichiarazione: che i preti-operai «si dedichino al lavoro manuale solo durante un periodo di tempo limitato») è una palese conferma del materialismo storico: chiunque ceda stabilmente la sua forza lavoro, è inevitabilmente portato a pensare in termini di classe, fosse pure protetto dallo Spirito Santo, talché la prima condizione di una sicura fedeltà del sacerdote alla sua «missione» è che non lavori o, al massimo, lavori «da dilettante». Non dubitiamo che, nel caso dei preti-operai, il datore di lavoro, interessato com’è allo sviluppo della loro sublime attività moralizzatrice, tollererà di buon grado che non timbrino il cartellino e, dovendo dedicarsi al lavoro manuale solo «durante un periodo di tempo limitato», saltino ore lavorative senza perdere — come qualunque operaio — il posto ed il salario.
Sono, questi, dei «costi di esercizio» della società borghese ai quali, sia pure con tirchieria, la classe padronale s’inchina sempre, al modo che sopporta i costi della sorveglianza notturna e della polizia statale o privata.