Perché la Russia non è socialista? Pt.7
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- Inglese: Why Russia isn’t Socialist (Pt. 7)
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Tutte le tare di un’agricoltura capitalistica
Socialismo è innanzitutto abolizione dei rapporti di scambio fondati sul valore, distruzione delle loro categorie fondamentali: capitale, salario, denaro. Queste categorie il kolchoz le garantisce sul piano della trasformazione del piccolo produttore rurale, di cui cristallizza la posizione sociale sia con la remunerazione in denaro (o in prodotti negoziabili) a compenso del lavoro in una fattoria cooperativa sia con lo sfruttamento del campicello e del bestiame di proprietà personale, i cui prodotti possono parimenti essere venduti sul mercato. Quindi, lungi dall’essere un tipo di “socialismo”, il kolchoz si avvicina piuttosto ai sistemi detti di “autogestione” che in certi paesi sottosviluppati, divenuti politicamente indipendenti, dissimulano, con una usurpazione di termini identica a quella del precedente russo, il ruolo di ponte di passaggio storico da essi svolto fra l’arcaica produzione naturale precedente il capitalismo e il pieno sviluppo di quest’ultimo.
Dopo aver esaminato le motivazioni politiche della “collettivizzazione forzata” e sottolineato in particolare l’appoggio che per suo tramite la controrivoluzione staliniana trovò nell’immenso contadiname sovietico, dobbiamo ora mostrare che appunto per questa via – tortuosa ma dalle caratteristiche inequivocabili – un autentico capitalismo nazionale si è affermato sulle rovine della rivoluzione d’Ottobre.
La figura del kolchoziano riflette bene l’impasse economico e sociale di una rivoluzione che, nell’ambito dei suoi confini nazionali, non poteva superare lo stadio di una trasformazione storica borghese. Il kolchoz, transizione necessariamente imposta dall’abbandono della strategia rivoluzionaria internazionale, non ha cessato di costituire il principale ostacolo al rapido sviluppo del capitalismo in Russia.
Non che tale ostacolo rappresentasse le sopravvivenze irriducibili di un “vecchio corso” in direzione del socialismo, come i trotskisti continuano a sostenere malgrado tutte le smentite dei fatti: esso dimostra al contrario il pesante tributo che il proletariato paga alla storia quando la controrivoluzione, dopo aver distrutto la prospettiva del socialismo, non offre nemmeno la contropartita di crearne le premesse economiche e sociali più radicali.
Rilevando i ritardi e le difficoltà economiche della Russia attuale, da cui gli economisti e i politici occidentali credono di poter dedurre un “fallimento del comunismo”, noi intendiamo invece stabilirne le cause reali, demolendo non solo le menzogne dello stalinismo e le illusioni di quanti sostengono la sopravvivenza in Russia di “conquiste socialiste”, ma anche la critica rivolta a Lenin di avere imprudentemente imboccato la strada del capitalismo di Stato. Il kolchoz non appartiene a quest’ultima categoria, più di quanto non sia una “realizzazione socialista”. I suoi beneficiari sono contadini che hanno apportato al fondo collettivo una parcella di terreno e un certo numero di capi di bestiame (se non ne disponevano vi ha provveduto lo Stato). Il kolchoziano partecipa alla valorizzazione collettiva di tutte le parcelle ormai riunite e della dotazione di bestiame così costituita, riceve una parte del prodotto di tale valorizzazione proporzionale al numero di giornate di lavoro che vi ha dedicate, mentre dispone di un pezzo di terreno e di un certo contingente di bestiame, dei quali utilizza i prodotti a suo piacere.
Per la sua condizione come per la sua psicologia sociale, il kolchoziano è estraneo al socialismo come può esserlo il farmer americano o il frutticoltore di una cooperative emiliana; per il modo in cui gli è retribuito il lavoro nella fattoria collettiva, assomiglia sì al lavoratore salariato, ma anche al piccolo azionista dei paesi capitalisti, poiché come lui percepisce una parte del profitto di intrapresa. La disponibilità del suo minuscolo patrimonio gli conferisce, invece, una posizione identica a quella del contadino parcellare d’Occidente. Il “personaggio” della società rurale russa più simile al proletariato dei paesi capitalistici occidentali, e quindi suscettibile di comportarsi come tale, è il lavoratore del sovchos. Ma quella del sovchos, o impresa di Stato, rappresenta solo una piccola parte della produzione agraria russa.
Il kolchoz, da qualunque angolo si consideri, è il fattore sociale ed economico più reazionario della società sovietica, a causa non solo della psicologia conservatrice dei suoi membri, ma anche del peso che rappresenta sulla sola classe moderna: il proletariato.
E’ facile capire come, scampato alla fame e all’appropriazione grazie al kolchoz, il piccolo produttore rurale russo non abbia lesinato il suo sangue, nell’ultima guerra mondiale, per difendere le sorti dello Stato staliniano, le garanzie di sopravvivenza e di stabilità che questo gli assicurava. Ma bisogna considerare l’insieme della struttura economica e sociale russa, per comprendere come questa sopravvivenza e stabilità sia dovuta, in definitiva, al supersfruttamento del proletariato. La mediocrità delle condizioni sociali nelle campagne russe non deve ingannare: il sistema kolchoziano, oltre ad accentuare le storture fondamentali della natura capitalistica dei rapporti di produzione, costituisce il principale ostacolo all’elevazione generale del livello di vita.
Imposta dalla strategia politica dello stalinismo, che aveva scisso le sorti dello Stato russo da quelle del proletariato internazionale, la forma kolchoziana è divenuta quasi inestirpabile nella misura in cui può essere eliminata – come desidererebbero gli attuali dirigenti sovietici – solo dalla concorrenza di una forma a produttività superiore, la cui apparizione, salvo un sovvertimento generale, appare ancora lontana. Qualche cifra basta a fissare le idee a questo proposito: le rese medie in cereali che, pur essendo aumentate (dal 1913 al 1956: + 25% contro il + 30% circa degli USA e del Canada), sono insufficienti in confronto all’incremento demografico; la percentuale ancora elevata della popolazione contadina, prova caratteristica della bassa produttività agricola (42% contro il 12% degli USA e il 28% della Francia); la spaventosa situazione del patrimonio zootecnico che, a parte una crescita spettacolare dell’allevamento dei suini (+63%), ha registrato una diminuzione di circa il 20% dal 1913 per i bovini da carne e da latte.
Questa carenza del sistema kolchoziano non risiede soltanto nelle insufficienze della sua produzione, ma anche e ancor più nel suo modo d’orientarsi: vendendo ai kolchoz i trattori di cui prima noleggiava i servizi, lo Stato russo si è privato del solo mezzo di pressione di cui disponeva per imporre la produzione delle derrate indispensabili delle quali, prima della famosa riforma di Krusciov, esso stesso fissava la quantità e il prezzo. Si è visto quindi lo stesso promotore di questa riforma battere le campagne ed esortare senza successo i kolchoziani a produrre grano invece dell’orzo e dell’avena che permettono l’allevamento molto più redditizio dei suini. Così, nel regime di pseudo-“socialismo” russo, la forma di lucro delle imprese kolchoziane prevale sulle esigenze alimentari di un “popolo” che si pretende sia al potere!
Tuttavia, ciò non significa che la sorte degli stessi kolchoziani sia paradisiaca. Sembra al contrario che, al netto di tutti i prelievi sulla produzione lorda del kolchoz (fra i quali figurano esattamente le stesse voci che in tutte le imprese capitaliste occidentali, e in particolare un tasso di investimento dello stesso ordine di grandezza), resti ben poco da “spartire” fra i soci. Questo fatto, costringendo il kolchoziano ad arrotondare il magro “salario” con la vendita dei prodotti del suo campicello personale, aggrava ulteriormente l’anarchia dell’approvvigionamento della popolazione. In effetti, lo scarso rendimento in cereali (che costituiscono ancora la base dell’alimentazione russa) si unisce all’indipendenza di fatto del kolchoz, e quindi alla sua tendenza a produrre di preferenza non ciò che è indispensabile, ma ciò che rende di più, facendo così diminuire l’offerta di derrate sul mercato ufficiale e alzare i prezzi sul mercato privato. Infatti, il kolchoziano ricava dalla vendita su questo mercato dei prodotti del suo appezzamento tanto quanto dal lavoro nel kolchoz. Per farsi un’idea del prezzo al quale il salariato urbano deve pagare i suoi mezzi di sussistenza, basta sapere che, nel 1938, i ¾ dei prodotti agricoli messi sul mercato provenivano ancora dai campicelli individuali e meno del quarto restante era fornito dai kolchoz propriamente detti; ancor oggi, la metà del reddito globale del kolchoziano è costituito dai frutti del lavoro sul suo pezzetto di terra. Qui manca spazio per riferire come la “riforma Krusciov” del kolchoz si sia imposta ai dirigenti sovietici (vedasi però il nostro “Dialogato con Stalin”): ma essa dimostra che l’economia russa – e in particolare il suo tallone d’Achille, l’agricoltura – obbedisce alle leggi inesorabili del capitalismo. Il solo criterio inconfutabile del socialismo è il trionfo del valore d’uso sul valore di scambio: solo quando esso è divenuto realtà, si può affermare che la produzione serve i bisogni degli uomini e non quelli del capitale. L’agricoltura pseudo-socialista dell’URSS illustra in modo lampante il caso opposto: sono le leggi del mercato e non i bisogni più elementari dei lavoratori che determinano quantitativamente e qualitativamente la produzione dei kolchoz.
Lo stesso sviluppo dell’economia russa in generale, che le permette e le impone al contempo l’accesso al mercato mondiale, ne illumina ancor più le contraddizioni. La concorrenza internazionale esige costi di produzione poco elevati, quindi il ribasso dei prezzi agricoli per poter nutrire la forza lavoro salariata senza doverla pagare troppo. Questa è una delle contraddizioni fondamentali del capitalismo, poiché, a causa dei limiti naturali imposti nel settore agricolo alla rotazione del capitale, quest’ultimo si dirige di preferenza verso l’industria. L’incremento della produttività agricola, al quale il capitalismo occidentale è comunque arrivato grazie all’industrializzazione delle colture e alla secolare espropriazione del piccolo produttore, è molto più difficile da conseguire per il capitalismo russo a causa dell’inamovibile settore kolchoziano che il potere sovietico si sforza solo di “selezionare”, incoraggiando i kolchoz in attivo a scapito di quelli in passivo.
Si può immaginare quale grado di sfruttamento tale potere debba imporre ai suoi salariati industriali per riuscire egualmente ad abbassare i costi di produzione, venendo così ad aggiungere alla miseria endemica del settore agrario, dovuta alle condizioni che abbiamo esposte, lo sfruttamento più barbaro degli operai.
Il capitalismo russo, come tutti i giovani capitalismi, getta la luce più cruda su tutte le contraddizioni del capitalismo in genere; perciò i suoi lacchè internazionali non potranno tacere ancora per molto la natura sfruttatrice del preteso “socialismo in un paese solo”, mantenendo all’infinito la superstizione che in tutti i paesi disarma il proletariato di fronte alla propria borghesia.
La realtà del capitalismo russo
La prova dello sfruttamento della forza lavoro non sta solo nel fatto che la classe che lavora riceve soltanto una parte del prodotto sociale, mentre quella che non fa nulla se ne appropria una grossa fetta per il suo consumo personale. Una tale “ingiustizia” non conterrebbe in sé la prospettiva della possibile e necessaria scomparsa del capitalismo. Ciò che condanna irrevocabilmente quest’ultimo sul piano storico è la necessità in cui si trova di trasformare una parte sempre crescente del prodotto sociale in capitale: questa cieca forza sociale sopravvive solo esasperando sempre più le proprie contraddizioni, e quindi anche la rivolta di quella classe che ne è la prima vittima.
Denunciare l’esistenza di questa cieca forza nella “Russia sedicente socialista” non significa dunque “attaccare e diffamare il comunismo”, come sostengono gli staliniani per la pelle; bensì smascherare la sua più spudorata contraffazione; significa orientare l’avversione istintiva degli operai per manifestazioni visibili del capitalismo contro la sua intima essenza, contro le sue categorie assassine: salario, denaro, concorrenza; significa dimostrare che il movimento proletario è stato sconfitto perché, in Russia e altrove, ha capitolato di fronte a queste categorie.
Altri hanno descritto molto meglio di come potremmo fare noi il feroce sfruttamento della forza lavoro in Russia; ci limiteremo quindi a illustrarne le cause alla luce di una delle leggi più caratteristiche del capitalismo: quella dello sviluppo crescente, proprio a tutti i paesi, della sezione che produce beni di produzione (sezione I) a detrimento della sezione II, che produce beni di consumo.
“Non lavoro ma cannoni” – questa formula di Hitler, ieri beffeggiata da coloro che oggi la imitano con la loro “forza d’urto” e i loro “deterrenti”, potrebbe così tradursi in russo: non scarpe ma macchine, non industria leggera ma pesante, non consumo ma accumulazione. Poche cifre bastano a dimostrarlo: dal 1913 al 1964, la produzione industriale globale russa si è moltiplicata per 62; quella della sezione I per 141, quella della sezione II per 20. Tenendo conto dell’incremento demografico sopravvenuto fra queste due date, la sezione dei beni di produzione si è ingrandita di 113 volte, quella dei beni di consumo di 12!
Ma ben più importanti sono gli effetti sociali di tale contrasto tra produzione e consumo. Si potrà colmare il “ritardo” dell’industria leggera, si potrà ovviare alla sue carenze, ma l’economia russa non si libererà più dalla contraddizione inseparabile del capitalismo: accumulazione della ricchezza a un polo e della miseria all’altro.
Già l’ingegnere, il tecnico, lo specialista hanno la loro villa sul Mar Nero, mentre agli operai non qualificati, ai tartari, ai chirghisi, ai calmucchi, strappati dalla loro vita rurale o naturale, non resta che la miseria incarnata in Italia dagli immigrati del Sud, in Francia dagli algerini o dai portoghesi.
Che oggi questo aspetto mostruoso del “modello russo” di socialismo non riempia di sdegno gli operai è il più grave delitto di cui il verdetto della storia farà carico allo stalinismo. Esso ha ridotto i termini di “socialismo” e “capitalismo” a semplici etichette diverse per indicare lo stesso contenuto.
Quando manovali e operai accettano come eterni il cottimo, la gerarchia dei salari e tutti gli altri aspetti della concorrenza fra venditori di forza lavoro, è facile all’intellettuale opportunista – convinto che il principale merito della rivoluzione d’Ottobre sia stato quello di strappare la Russia dalla sua arretratezza economica – assimilare socialismo ad accumulazione del capitale. Il fatto che tutto il Terzo Mondo in rivolta contro l’imperialismo faccia a sua volta propria questa concezione mostra l’ampiezza di una sconfitta del movimento proletario che non ha solo distrutto la forza viva della classe operaia, ma ne ha pure alterato profondamente la coscienza politica. Seguendo questa spaventosa “via al socialismo”, si condannerebbero tutti i proletari del mondo a ripercorrere uno dopo l’altro l’orrendo calvario che è stato dovunque quello del capitalismo.
Basta ricordare che cosa esso fu in Russia sotto Stalin. I piani quinquennali – troppo facili da ammirare per l’intellettuale occidentale che non ha mai toccato un utensile in vita sua – furono letteralmente un inferno di lavoro, un carnaio di energie umane; essi sopprimevano le garanzie più elementari degli operai; con l’istituzione del “libretto di lavoro”, riportavano la condizione del salariato russo allo stesso livello del salariato francese sotto la sferza poliziesca del Secondo Impero; piegavano i lavoratori ai metodi infamanti dello stakanovismo, reclutavano la mano d’opera a colpi di repressioni; la sperperavano in “realizzazioni” spesso inutili; chiamavamo sabotaggi i frutti dell’incuria burocratica, e li facevano pagare in processi di una mostruosità medievale a “trotskisti” o cosiddetti tali. Questi “eccessi staliniani” non furono dovuti, come oggi pretendono coloro che devono a essi le proprie sinecure di burocrati o di politici, alle “condizioni specifiche” del “socialismo russo”, bensì alle condizioni generali, universali, proprie della genesi di ogni capitalismo. L’accumulazione originaria del capitale inglese uccise migliaia di contadini liberi; quella del nascente capitalismo russo trasformò i cittadini in delinquenti politici per farne meglio dei forzati: durante la seconda guerra mondiale, i capi del NKVD (polizia politica) a corto di manodopera reclutata nei campi di concentramento fecero questa edificante autocritica: “Non siamo stati abbastanza vigili nella nostra opera di sorveglianza politica!”
Tutte queste atrocità sono state commesse incensando un falso iddio: si cantavano le lodi del socialismo, si sacrificava alla produzione! Lo slancio industriale del dopoguerra favorirà questa soperchieria; secondo Stalin, poiché il capitalismo decadente non era più capace di sviluppare le forze produttive (parole d’oro per i “comunisti” occidentali, membri di governi borghesi di ricostruzione patriottica: gli scioperi diventano “armi dei trust”!), la prova del socialismo in URSS la si doveva trovare nella curva ascendente degli indici di produzione nell’atto stesso in cui quelli dell’occidente capitalista ristagnavano.
L’illusione doveva durare giusto il tempo necessario all’economia occidentale per prendere un nuovo slancio. E’ questa una costante nella storia del capitalismo: il tasso di incremento della produzione diminuisce nella misura in cui il capitalismo invecchia. Questo tasso, tanto più elevato per il giovane capitalismo russo in quanto esso partiva pressoché da zero, doveva ritrovare in seguito il suo vero posto dietro i capitalismi, certo più vecchi ma notevolmente ringiovaniti dalle distruzioni belliche. Se il tasso annuo di incremento della produzione fosse realmente un criterio di socialismo, si dovrebbe ammettere che la Germania Federale e il Giappone, i cui indici di produzione galoppano a un ritmo allucinante, siano più socialiste della Russia! In quest’ultimo paese, infatti, l’aumento medio annuo della produzione rallenta progressivamente: 22,6% dal 1947 al 1951; 13,1% dal 1951 al 1955; 9,1% dal 1959 al 1965. Questo fatto, che si ripete nella storia di tutti i capitalismi, conferma che l’economia russa non sfugge a nessuna delle loro caratteristiche essenziali.
Il bluff staliniano sulla marcia irresistibile della produzione russa doveva crollare dopo di aver servito di pretesto alla liquidazione della “guerra fredda” e alla riconciliazione fra russi e americani. Non solo i “miracoli” della produzione sovietica, malgrado le fanfaronate di Krusciov, non hanno convinto questi ultimi della “superiorità del sistema socialista sul sistema capitalista”, ma il promotore della “emulazione pacifica tra sistemi diversi” ha dovuto riconoscere egli stesso la necessità per la Russia di mettersi alla scuola della tecnica dell’Occidente.
Con le parole d’ordine lanciate dall’economista Lieberman – produttività del lavoro, redditività delle imprese – cadono gli ultimi veli che nascondevano la realtà del capitalismo russo. In URSS, la fase dell’accumulazione originaria del capitale è conclusa: la produzione russa si sforza di accedere al mercato mondiale e deve quindi piegarsi a tutte le sue esigenze. Il mercato è un luogo in cui si fronteggiano merci. Dire merce è dire profitto. Anche la produzione russa è produzione per il profitto. Ma questo termine deve essere preso nella sua accezione marxista – plusvalore destinato a essere convertito in capitale – e non nella sua accezione volgare di “utile del padrone”.
Sotto questo grossolano trasferimento, era facile agli staliniani negarne l’esistenza, poiché la proprietà privata dei mezzi di produzione in Russia non esiste. Quanto ai loro avversari di sinistra, i quali sostengono che la forza lavoro russa è sfruttata, essi si rinchiudono, per la maggior parte, nello stesso criterio giuridico e puramente formale, invocando l’esistenza di una “burocrazia” che monopolizzerebbe arbitrariamente il prodotto nazionale.
Questa spiegazione non spiega nulla: la “burocrazia” è sempre più o meno apparsa in dati momenti della genesi o dell’evoluzione di tutti i grandi modi di produzione, ed è la natura di questi modi di produzione che ne determina i compiti e i privilegi – non questi che determinano quella. Del resto, le strutture del capitalismo moderno tendono ad unificarsi, tanto nelle loro “espressioni tradizionali” quanto in quelle russe. Quello d’Europa e d’America si “burocratizza” nella misura in cui, dissociatesi da tempo proprietà e gestione, la funzione dello Stato diviene determinante e genera tutta una mafia di managers e di affaristi che sono i veri padroni dell’economia. Quello in Russia, rinculando, si “liberalizza”, cioè allenta il controllo statale della produzione, vanta le virtù della concorrenza, del commercio e della libera impresa – anche se questo processo non è rettilineo ma contraddittorio – per ragioni politiche e sociali che avremo certo occasione di esaminare in futuro.
Applicati alla storia economica dell’URSS, i criteri enunciati dall’inizio di questo scritto permettono di ripercorrere la genesi del capitalismo russo. Salariato e accumulazione del capitale sono evidentemente incompatibili col socialismo. Imposti alla Rivoluzione d’Ottobre dall’arretratezza economica del paese, essi lasciavano aperta la prospettiva di un socialismo futuro nella sola e stretta misura in cui il loro impiego si limitava alla soddisfazione delle esigenze della vita sociale in Russia e si subordinava rigorosamente alla strategia di estensione internazionale della rivoluzione.
Abbandonata questa strategia, e la “coesistenza pacifica” traducendosi in lotta per il mercato mondiale, la Russia doveva proclamare alla luce del sole il primato nella sua economia delle categorie universali del capitalismo: concorrenza, profitto. Certo, esse sono apparse senza l’esistenza di una classe borghese dirigente di cui la burocrazia assicura un interim d’altronde prossimo alla fine. Ma questa classe non può restare all’infinito sotterranea, nascosta, quasi clandestina, come è ancora oggi. Agiscono per suo conto tanto i commessi viaggiatori politici che concludono accordi commerciali nelle capitali estere, quanto i militari che riducono col terrore ogni velleità di emancipazione dei “partiti fratelli” dell’Europa centrale o dei Balcani. Sono allo stesso titolo strumenti della futura borghesia capitalistica russa i diplomatici che “aiutano” i Paesi arabi o il Nord Vietnam e i carri armati che fanno opera di polizia in Cecoslovacchia. Oppressore militare prima di essere concorrente “valido”, arruolatore di manodopera forzata prima di estorcere plusvalore al modo raffinato dei suoi rivali d’occidente, il capitalismo russo ha percorso, in mezzo secolo di stalinismo, la via segnata di sangue, di violenza, di infamia, di corruzione che è la via maestra di ogni capitalismo. L’insegnamento da trarne si può riassumere in poche frasi. La possibilità del socialismo in Russia era subordinata alla vittoria della rivoluzione comunista europea. L’impostura staliniana, contrabbandando i rapporti di produzione russa attuali come rapporti non-capitalistici, ha cancellato ogni distinzione, anche la più elementare, fra socialismo e capitalismo e distrutto la sola vera arma del proletariato: il suo programma di classe.
L’essenziale di questo programma è, sul piano politico, la dittatura del proletariato; sul piano economico, l’abolizione dello scambio mercantile fondato sullo sfruttamento della forza lavoro. Di queste due condizioni per il socialismo, la Rivoluzione d’Ottobre ha realizzato soltanto la prima e senza poterla conservare per più di qualche anno, mentre non poteva – e i suoi capi lo sapevano – giungere alla seconda.
La dittatura del proletariato è morta nel corso della degenerazione del partito bolscevico. Questo, divenuto strumento dello Stato sovietico invece di esserne il padrone, ha reso impossibile sia la vittoria internazionale del proletariato, sia l’estinguersi dello Stato, punto fondamentale del marxismo. Mentre, sul piano sociale, la “Costituzione democratica del 1936” dava la supremazia all’immensa massa conservatrice del contadiname, sul piano economico l’URSS si sottometteva definitivamente alla legge del valore, al meccanismo di accumulazione del capitale le cui forze irresistibili dovevano, senza l’aiuto della rivoluzione internazionale, riprodurre in Russia le stesse tare e le stesse mostruosità di ovunque. Nel momento in cui l’inesorabile logica dei fatti svela anche agli occhi dei più increduli le sue infamie e le sue contraddizioni, la denuncia del falso socialismo russo è il primo presupposto del ritorno del proletariato internazionale ai suoi obiettivi rivoluzionari e della riabilitazione, agli occhi degli sfruttati del mondo intero, dei princìpi fondamentali del comunismo.