Partito Comunista Internazionale

Circo elettorale e miseria del proletariato filippino

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Le Filippine restano incatenate nel giogo dell’imperialismo, funzionando come una semi-colonia in cui lo sviluppo economico nazionale è interamente subordinato agli interessi del capitale straniero. Dietro la facciata della democrazia borghese si cela appena l’essenza di un apparato statale che agisce come strumento di dominio di classe.

Il proletariato filippino e i contadini sopportano il peso intero di questa oppressione, attraverso un’intensificazione dello sfruttamento, misure di austerità e una sistematica distruzione delle condizioni di vita.

Mai, in nessuna fase storica, la borghesia filippina ha dimostrato un’effettiva indipendenza dal capitale estero. La cosiddetta politica del «Filipino First» promossa dal governo Garcia alla fine degli anni ’50, celebrata come tentativo di nazionalismo economico, fu abbandonata in breve sotto la pressione del capitale statunitense e affossata dalla stessa borghesia locale, del tutto priva dei mezzi e della volontà di rompere con l’imperialismo. L’espansione contemporanea di conglomerati come San Miguel Corporation o Ayala si fonda su joint ventures, prestiti esteri e afflussi di capitale speculativo; mentre il presunto «pivot verso la Cina» sotto Duterte non ha fatto che sostituire un padrone imperialista con un altro, senza intaccare la condizione di dipendenza della borghesia filippina.

Persino i conflitti tra frazioni della classe dominante, come l’esproprio dei Lopez da parte del regime Marcos, non rappresentarono che la riconfigurazione degli equilibri tra compradori sotto la direzione dell’imperialismo. La posizione strategica dell’arcipelago nella regione Asia-Pacifico lo ha reso teatro di rivalità interimperialiste, principalmente tra il capitale statunitense e quello cinese, con la borghesia locale allineata, secondo convenienza, con la potenza in grado di assicurare la continuità del proprio profitto. Questo sviluppo conferma la tesi fondamentale del marxismo: nell’epoca dell’imperialismo, la borghesia nazionale nei paesi dipendenti non ha alcun ruolo progressivo da svolgere. La liberazione nazionale non può emergere nel quadro del capitalismo, ma esige la conquista rivoluzionaria del potere da parte del proletariato e l’abolizione dei rapporti sociali che perpetuano la dipendenza e lo sfruttamento.

Le elezioni di metà mandato del 12 maggio 2025 hanno confermato la perpetua stagnazione della scena politica filippina, dominata da dinastie parassitarie, caudilli locali e blocchi imperialisti concorrenti. La cosiddetta opposizione «liberal-democratica» del senatore Risa Hontiveros, sostenuta da settori dell’imperialismo statunitense, ha guadagnato terreno, raccogliendo il malcontento crescente contro il regime Marcos Jr. e tentando di presentarsi come un’alternativa «progressista». Ma si tratta, come sempre, di una falsa alternativa all’interno dello stesso ordine borghese.
Il blocco presidenziale ha mantenuto il controllo della Camera dei Rappresentanti e ha conservato l’influenza sul Senato, con il sostegno dei potentati provinciali, delle forze di sicurezza e degli interessi economici che ruotano intorno a Pechino. La DuterTen Coalition, pur ridimensionata, ha mantenuto il proprio zoccolo duro a Mindanao e nelle regioni a maggioranza musulmana, strumentalizzando la retorica securitaria e lo pseudo-populismo autoritario.

L’apparato elettorale — corrotto, clientelare, basato sul voto di scambio e sull’intimidazione — ha nuovamente funzionato come dispositivo per il ricambio interno alla borghesia e per la perpetuazione dello status quo. L’82% della popolazione, quindi milioni di proletari, hanno preso parte al voto solo per ritrovarsi, il giorno dopo, davanti agli stessi salari miserabili, allo stesso aumento del costo della vita, alla stessa repressione delle lotte. La lezione è chiara: il proletariato non ha alcun candidato, né oggi né domani, nelle urne del nemico di classe.

L’11 gennaio 2025, il Trade Union Congress of the Philippines (TUCP), la maggiore centrale sindacale del paese, si è nuovamente presentato davanti al parlamento borghese per invocare un aumento salariale di 150 pesos giornalieri. Questa organizzazione, che pretende di rappresentare gli interessi del proletariato, conferma invece il fallimento storico del sindacalismo riformista.

Il TUCP rileva correttamente che la maggioranza delle famiglie filippine vive nella miseria e nella fame, in mezzo a rincari continui dei beni di prima necessità, delle tariffe e dei contributi sociali. Ma canalizza la collera di classe verso le petizioni parlamentari, invece di orientarla alla lotta di classe.
«Senza un aumento di 150 pesos, coloro che sono già a rischio di povertà o sull’orlo dell’indigenza cadranno nel baratro», ha dichiarato il vicepresidente Luis Corral, rivelando tutta la timidezza e la collaborazione di classe che caratterizzano il sindacalismo ufficiale. Nel frattempo, l’aumento previsto della tariffa sui trasporti LRT-1 di 15 pesos (0,22 euro) annullerà esattamente 15 dei 35 pesos dell’ultimo adeguamento sul minimo salariale, lasciando ai lavoratori un incremento reale di appena 20 pesos: del tutto insufficiente di fronte all’inesorabile avanzata dell’inflazione.

L’illusione riformista propagata dal TUCP —che la partecipazione alle elezioni borghesi e ai meccanismi parlamentari possa condurre a miglioramenti sostanziali per i lavoratori— non fa che legittimare le istituzioni del capitale, disarmando il proletariato. Queste organizzazioni fanno credere ai lavoratori che, seguendo i loro sedicenti «dirigenti sindacali», si possa alleviare la miseria senza mettere in discussione le fondamenta stesse del sistema capitalistico. Si tratta di un tradimento fondamentale degli interessi di classe. I bonzi sono gli stessi, in tutti i climi. Solo uno sciopero generale, ampio e organizzato, del proletariato filippino potrà aprire la via a un cambiamento reale — non le urne elettorali né le mozioni parlamentari, che fungono unicamente da valvola di sfogo per le contraddizioni di classe.

Una situazione altrettanto grave colpisce il proletariato agricolo filippino. Il Disegno di Legge n. 1801 del Senato garantisce ai piccoli agricoltori un reddito minimo pari al salario minimo regionale. Questa manovra parlamentare mira a placare il malcontento rurale senza affrontare le contraddizioni fondamentali del capitalismo agrario.

Il proletariato rurale è esposto a condizioni catastrofiche: cambiamenti climatici, disastri naturali, indebitamento cronico, pressioni brutali del mercato mondiale. Nell’ambito del modo di produzione capitalistico, non è possibile alcun miglioramento reale della loro condizione.

Occorre una lotta unitaria tra contadini poveri, proletari agricoli e industriali, diretta all’aumento dei salari minimi attraverso una corretta organizzazione di classe. Un tale movimento costituirebbe un colpo pesante contro la borghesia e contribuirebbe allo sviluppo della coscienza di classe, tanto nelle campagne quanto nelle città.

Il proletariato filippino deve respingere ogni forma di partecipazione politica all’interno delle istituzioni borghesi. Solo mediante la lotta di classe rivoluzionaria le masse lavoratrici delle Filippine potranno liberarsi dal duplice giogo dello sfruttamento interno e del dominio imperialista. L’emancipazione del proletariato filippino non passa attraverso la scelta fra fazioni borghesi concorrenti, ma nella sua capacità di costituirsi come forza politica autonoma, con il compito storico di abbattere il capitalismo.