Partito Comunista Internazionale

La guerra del Vietnam e i frutti amari del pacifismo opportunista Pt.2

Categorie: Cambodia, China, France, Laos, USA, USSR, Vietnam

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Realtà e leggenda degli accordi di Ginevra

Non sono soltanto i falsi partiti « comunisti », – mentre nel Vietnam i guerriglieri sostengono tutto il peso dell’aggressione americana – , a invocare il … rispetto degli accordi di Ginevra, come se in questi fosse la magica chiave per risolvere la drammatica situazione indocinese. Chi infatti credete che, dodici anni dopo la conferenza dei Nove, esprima sugli accordi di brutale « spartizione » del Vietnam al 17º parallelo un giudizio tanto favorevole quanto contrario alla verità storica come il seguente: « Le clausole più importanti degli accordi di Ginevra sono quelle che sanciscono il rispetto della sovranità, della indipendenza, dell’unità e dell’integrità territoriale del Vietnam »? Forse un rappresentante delle forze imperialistiche che al Viet-minh in lotta per l’indipendenza e l’unità del Vietnam imposero quella divisione? No, è il presidente della Repub- blica nord-vietnamita, capo del Viet-minh e ispiratore dei Viet-cong, il signor Ho Ci Minh in persona, in un’intervista concessa il 26 giugno al giornale «comunista» inglese Daily Worker.

Parrebbe incredibile che così si affermi nel momento stesso in cui il Vietnam del Nord prova nella carne dei suoi abitanti le conseguenze dirette della divisione territoriale della penisola che a Ginevra il Viet-minh dovette accettare nel 1954. Ma incredibile non è. L’ideologia comune a tutto il preteso « campo socialista » consiste nell’opporre alla forza le finzioni del diritto: è quindi affatto naturale che esso trasformi in leggenda la realtà storica. Per Ho Ci Minh come per Kossighin e come per i cinesi, la storia reale è « nulla e non avvenuta ».

Vero nazionalista ma falso rivoluzionario e ancor più falso « comunista », Ho Ci- Minh non ha forse dichiarato al Daily Worker che ai suoi occhi gli « accordi di Ginevra restano sempre validi », « sono la base di qualunque soluzione della questione vietnamita », e « devono essere rispettati e applicati da tutti i contraenti, ivi compresi gli Stati Uniti »? E Kossighin non gli ha forse fatto eco dichiarando ufficiosamente che l’URSS si schiera con la posizione nord-vietnamita: « arresto dei bombardamenti contro il Vietnam del Nord – rispetto scrupoloso degli accordi di Ginevra – evacuazione del materiale di guerra americano, e diritto per il popolo vietnamita di decidere da sè del suo destino »?

Dunque, al linguaggio tuonante dell’ imperialismo, il « campo socialista » risponde in blocco con il linguaggio dolciastro e menzognero del peggiore bigottismo giuridico. E’ perciò che importa contrapporre alla leggenda degli accordi ginevrini la realtà degli accordi stessi, anche se il vero problema è altrove e si chiama: « primato della forza sul diritto ».

Un accordo non firmato

Ricordiamo anzitutto che occorsero tre mesi di trattative faticose fra i Nove (Francia, Viet-minh, Vietnam del Sud, Stati Uniti, Inghilterra, URSS, Cina, più il Laos e il Cambogia), perchè il 21 luglio 1954 si mettesse fine ad una guerra che durava da otto anni e che aveva costato circa 400.000 morti. Queste trattative si conclusero in tre accordi puramente militari (Vietnam, Laos, Cambogia), in dichiarazioni che impegnavano soltanto i loro autori (i governi cambogiano, laotiano e francese), e in una « dichiarazione finale » alla quale gli Stati Uniti si rifiutarono di unirsi e che infine nessuno sottoscrisse, sebbene le altre otto potenze le dessero tacita approvazione. Ora, questa « dichiarazione » (che d’altronde si limitava a prendere atto degli altri testi) conteneva appunto la decisione che il Viet-minh, nelle sue illusioni democratiche, giudicava capitale: quella riguardante le elezioni generali, da cui esso si attendeva la … riunificazione pacifica del paese, e la cui data era stabilita al mese di luglio 1956. 

Poiché la duplicità è la caratteristica principale dei più scrupolosi giuristi, « l’assenza di firma » permise più tardi (come scrive uno storico degli accordi ginevrini) di « fingere di considerare l’organizzazione delle elezioni nel Vietnam nel giro di due anni come un semplice progetto ». Avendo abbandonato le armi per mettersi sul terreno del diritto, il Viet-minh si lasciò gabbare due volte: prima, nella questione della data delle elezioni, – perché mentre, per paura che lo stato del Sud-Vietnam si rafforzasse, aveva sempre preteso che le elezioni avvenissero nel giro di sei mesi contro i diciotto che il governo francese di Bidault proponeva, finì per dover accettare i due anni « generosamente » proposti da Molotov in rappresentanza della « grande alleata socialista » russa; poi, e soprattutto, nella questione di principio, perché questa non fu riconosciuta che in un documento senza valore legale, in quanto mancante di firma.

All’epoca, di fronte a questo capolavoro dell’arte diplomatica, un osservatore borghese si stupì: « La conferenza di Ginevra ha inventato una nuova formula di obbligo legale fra Stati: il trattato non sottoscritto ! » Tutte le persone serie sanno che nessun obbligo puramente « legale » ha mai « obbligato » nessuno Stato, qualunque fosse il numero delle firme. Ma i rappresentanti del « campo socialista », oltre a distinguersi dagli altri borghesi per l’ignoranza che mostrano di fronte a questa realtà storica, li superano in cretinismo giuridico esigendo dagli Stati Uniti che si sentano legalmente vincolati da un trattato che essi non hanno mai sottoscritto, e che non fu nemmeno un trattato in senso proprio! Eppure, nel mondo politico, questo ammasso di idiozie e di incoerenze porta il nome di « politica veramente democratica e progressista » …

Un regolamento « militare »

L’idealizzazione odierna degli accordi di Ginevra da parte di Ho Ci Minh, la loro presentazione come accordi politici conformi ai sacri principi borghesi dell’indipendenza e dell’unità nazionale, sono tanto più scandalose in quanto, per oltre un mese, nel 1954, i negoziatori viet-minh tentarono invano di subordinare la cessazione del fuoco alla soluzione delle questioni politiche, mentre i rappresentanti dell’imperialismo francese facevano il tentativo esattamente inverso e finivano per spuntarla con l’aiuto non solo dell’Inghilterra e della neutralista India, ma soprattutto dell’ URSS e della Cina. In altri termini, 12 anni dopo, Ho Ci Minh ragiona come se le condizioni poste da Pham Van Dong all’inizio delle trattative fossero state accettate, invece di essere, come furono, respinte !

Queste condizioni erano tuttavia moderate e perfino moderatissime: 1) riconoscimento da parte francese della sovranità, indipendenza e integrità territoriale del Vietnam, del Laos e del Cambogia; 2) conclusione di un accordo per il ritiro di tutte le truppe straniere dai territori dei tre paesi in un termine da stabilire, e, prima del ritiro, accordo sullo stazionamento delle truppe francesi in settori limitati, con l’obbligo di non immischiarsi nell’amministrazione locale; 3) organizzazione di elezioni generali libere in vista della costituzione di un governo unico in ciascuno di essi.

La risposta dei diplomatici fu che « il Viet-minh si preoccupava meno di far cessare la guerra che di assorbire tutta la Indocina »; fu quindi di pretendere che il caso del Laos e del Cambogia fosse disgiunto da quello del Vietnam (perché nei due primi stati il rapporto di forza era più sfavorevole ai movimenti anti-imperialisti) e di rifiutare l’accordo su un regolamento politico come premessa alla cessazione del fuoco. A tutta prima il Viet-minh tenne duro sulle condizioni politiche dell’armistizio, sul rifiuto di ritirare le truppe dal Laos e dal Cambogia, e sul principio del riconoscimento dei guerriglieri vittoriosamente operanti nel primo paese (i Pathet Lao) e nel secondo (i Khmer Issarak). Ma, sotto la pressione del rappresentante della « grande alleata socialista » (Molotov), finì per accedere alla tesi dell’imperialismo francese, e così le questioni militari ebbero la precedenza sulle questioni politiche.

Non basta. Sul terreno strettamente militare, il solo problema che si ponesse era il disinnesto delle rispettive forze armate. I diplomatici francesi propongono la formula della « pelle di leopardo », cioè del raggruppamento delle truppe sparse sull’ insieme del territorio: soluzione militarmente instabile, ma che non pregiudicava l’ulteriore organizzazione politica. Scegliere fra questo tipo di accordo militare e quello della « spartizione » avanzato dagli inglesi, e consistente in un raggruppamento delle rispettive forze armate previo scambio di territori, equivaleva, come notò un osservatore borghese, a scegliere fra la « cancrena » (le zone territoriali mal definite favorivano la marcia avanti del Viet-minh) e l’« amputazione ». 

Giudizio esatto: eppure, il Viet-minh « scelse » la seconda soluzione. Quando una simile « bomba » scoppiò, il 25 maggio, i diplomatici francesi esultarono: lo stesso Viet-minh offriva una soluzione che sul piano politico significava la rinuncia all’ unità nazionale e che neppure l’imperialismo francese avrebbe potuto esigere a causa dei suoi « impegni » verso il governo di Saigon!

La formula di Pham Van Dong era questa: « il riaggiustamento avverrà sulla base di uno scambio di territori che tenga conto dei seguenti elementi: superficie, popolazione, interessi politici ed economici, in modo che ad ogni parte tocchino delle zone omogenee, relativamente estese, e che offrano facilitazioni di attività economica e di controllo amministrativo ».

Era la liquidazione precipitosa della guerra, nella stanchezza per la terribile emorragia che Dien Bien Phu, malgrado la vittoria, aveva rappresentato, nel timore di un intervento americano o anche solo dell’invio di un contingente francese, e sotto la pressione dell’URSS e della Cina, impazienti di concludere un « accordo » che « stabilizzasse » una situazione pericolosa in mancanza di una soluzione effettiva dei problemi. Non era il regolamento politico a cui aveva tutti i diritti storici un movimento nazionale rivoluzionario che, agli 80 battaglioni dell’ Union Française, opponeva 120 battaglioni non solo ben armati, ma galvanizzati dalla volontà di spazzar via la quasi secolare oppressione colonialista e che, in quel momento, occupavano più o meno sporadicamente il terreno fino al 13″ parallelo ed anche più a sud, nella regione di Phan-Thiet.

Ora, è questa soluzione miserabile, tipica dei mercanteggiamenti esosi dell’imperialismo, che Ho Ci Minh osa vantare oggi come implicante « il rispetto della sovranità, dell’indipendenza, dell’unità e dell’ integrità territoriale del Vietnam », dimenticando che in origine il Viet-minh poneva la questione non solo del Vietnam, ma di tutta la penisola, e che solo il riconoscimento delle monarchie del Cambogia e del Laos da parte russa e cinese la costrinse a un nuovo ripiegamento politico.

Il mercato dei paralleli

L’abbattimento della dominazione straniera è stato sempre considerato dai marxisti come il primo passo nella rivoluzione nelle colonie, ma come un primo passo soltanto. Il fatto è che i marxisti 1) non si accontentano, come i democratici tradizionali, di un’emancipazione puramente politica, ma aspirano a un’ emancipazione completa, quindi sociale; 2) non credono, come i progressisti di tutte le sfumature, che lo sviluppo capitalista dei paesi arretrati basti ad assicurare questa emancipazione completa (infatti lo sviluppo in senso capitalista imprigiona i popoli dei paesi recentemente liberati nel quadro dello sfruttamento di classe la cui abolizione è lo scopo del comunismo); 3) per loro, l’abbattimento della dominazione straniera e l’instaurazione dell’indipendenza nazionale non sono mai una condizione sufficiente allo sviluppo delle forze economiche e quindi della classe proletaria, cioè del principale risultato storico che, in mancanza di una rivoluzione proletaria nei paesi avanzati, ci si possa attendere dai « primi passi » della rivoluzione coloniale.

Sotto quest’ultimo aspetto, la estensione del nuovo Stato creato, le sue risorse, la sua popolazione, le sue tradizioni di lavoro, i suoi rapporti col mercato mondiale, ecc., hanno una influenza molto più decisiva che il fattore strettamente politico – o meglio, la sua indipendenza politica reale è funzione di tutti questi fattori materiali. Ed è vero che tali fattori non hanno alcun ruolo nell’atteggiamento politico dei marxisti di fronte all’oppressione imperialista, atteggiamento che dipende in modo esclusivo dai principii dell’internazionalismo proletario e non tollera alcuna eccezione. Ma essi hanno un peso enorme nella valutazione del « passo storico » compiuto da ognuna delle rivoluzioni coloniali; rivoluzioni che solo dei democratici incancreniti possono confondere tutte quante (dalla Cina all’Algeria, dalla Corea all’ Egitto) nello stesso rispetto platonico di principii puramente astratti che il marxismo ha sempre rifiutato di far suoi, sostituendoli con criteri materiali e di classe ben altrimenti importanti e reali.

Questo breve richiamo era necessario per far capire che anche da un punto di vista che non ha nulla in comune con quello del nazionalismo borghese, – perché è quello dell’internazionalismo comunista e proletario -, la questione della realizzazione dell’unità nazionale di un’ex colonia, o quella dei limiti, delle risorse e della importanza della popolazione di un nuovo Stato, non è affatto indifferente. Sotto questo aspetto, il regolamento « militare » – cioè imperialista – della questione vietnamita è stato disastroso. E ciò perché non solo ha diviso in due il Vietnam, ma ha lasciato al Vietnam del Nord da cui il movimento anti-imperialista era partito un territorio talmente esiguo, che ogni sviluppo di un certo rilievo delle forze produttive doveva esserne irrimediabilmente compromesso.

La questione era talmente importante che occupò tutta la seconda fase della conferenza di Ginevra (la prima, ripetiamo, aveva avuto per effetto di « far prevalere il regolamento militare su quello politico », come dicevano nel loro gergo i diplomatici). In origine le posizioni dei due avversari erano molto lontane l’una dall’altra: il Viet-minh, che sul terreno dei rapporti di forza occupava la maggior parte della penisola, esigeva come linea di demarcazione il 13º parallelo, il che corrispondeva alla sua situazione militare; l’ imperialismo francese più ingordo degli stessi anglosassoni – chiedeva che la frontiera fosse costituita dal 18° parallelo, in modo da essere « conforme alla ragione, alle leggi della geografia, all’interesse di tutti », ma soprattutto la più breve da una parte all’altra e quindi la meno suscettibile di provocare frizioni. Questa differenza di soluzioni significava circa 600 km, e una popolazione di oltre 2 milioni. Così ebbe inizio un interminabile mercato, in cui le « grandi alleate socialiste » sostennero, per l’ intermediario di Ciu En-lai e di Molotov, il ruolo principale, perché furono esse a costringere i vietnamiti ad accettare la soluzione infine prevalsa.

I militari avevano dapprima proposto di far risalire la linea di confine dal 13º al 14º parallelo. Era una prima ritirata. Sotto la pressione di Ciu En-lai, essi finirono per concedere il 16°: ma Mendès-France il super-democratico non lo accettò, col pretesto che questa linea privava il Vietnam del Sud di Hue e di Tourane, per esso d’ importanza vitale, e lasciavano nelle mani del Viet-minh la strada coloniale nr. 9, solo accesso del Laos al mare. Molotov sostenne anch’egli la soluzione (nettamente favorevole all’ imperialismo) del 16″ parallelo, ripetendo a chi voleva sentirlo che era il limite scelto, all’indomani della sconfitta del Giappone nella II guerra mondiale, per delimitare i settori di responsabilità inglese e cinese. Il diplomatico sovietico era familiare con i procedimenti imperialistici, e la fine del secondo massacro mondiale, l’epoca « in cui si disponeva della sorte del mondo con un regolo calcolatore », evocava in lui ricordi troppo piacevoli per non chiedere di resuscitarli.

Così, dopo che Ciu En-lai ebbe convinto Pham Van Dong ad accettare il 16º parallelo, sarà lo stesso Molotov a strappare la decisione ultima ottenendo dal Viet-minh l’abbandono di … un nuovo parallelo e arrivando al 17º. Fatti della cronaca diplomatica da mettere nel dossier della Cina e dell’ URSS, per illuminare il vero ruolo « nella liberazione dei popoli coloniali » …

Breve conclusione

La « spartizione » sulla linea del 17º parallelo, l’inganno di « elezioni generali e libere » che non sarebbero state necessarie se il Viet-minh non fosse stato costretto a cedere le armi e che, dal momento che le aveva cedute, non dovevano mai più verificarsi, l’abbandono del Cambogia e del Laos dove pure guerriglieri occupavano dei punti chiave – ecco i famosi accordi di Ginevra, vittoria manifesta dell’ imperialismo, vittoria così clamorosa da far dire a Eden, diplomatico della prima potenza coloniale del mondo e buon giudice in materia: « E’ il miglior accordo che potessimo combinare con le nostre mani ».

Ed è questo il risultato che Ho Ci Minh, impavido, considera come «sempre valido» sebbene (a parte ogni altra considerazione) esso abbia costituito il punto di partenza della odierna « scalata » americana ! Que- sta la sconfitta che egli proclama come « base di ogni regolamento della questione vietnamita » e come soluzione alla quale si dovrebbe « tornare »!

Un atteggiamento così falso e codardo non è solo la negazione più completa di tutti i principi del marxismo rivoluzionario; è un insulto ai 400 mila morti della prima guerra di liberazione del Vietnam e agli eroici combattenti Vietcong di oggi. E’ un’ infamia di più da aggiungere al già lungo dossier delle infamie del nazionalcomunismo. E’ soprattutto una nuova conferma del fatto che in nessuno stadio della rivoluzione coloniale, in nessun paese, le masse proletarizzate hanno da aspettarsi dal rivoluzionarismo piccolo-borghese, democratico e pacifista, nulla che non sia inganno, tradimento e servitù.