International Communist Party

Il Programma Comunista 1953/22

Anche gli attivisti del buon Dio al salvataggio delle aziende

In regime fascista, quando le aziende industriali erano in difficoltà o fallivano, la procedura era semplice: in nome dei “superiori interessi” della Nazione (sempre gli interessi della classe dominante, quelli più apertamente di bottega, passano per superiori e identici a quelli della collettività nazionale), lo Stato corporativo accollava alla suddetta collettività l’onere finanziario dell’impresa in deficit: quando poi la situazione fallimentare investiva l’intera attrezzatura industriale, ci si buttava o in imprese militari esterne o all’autarchia, e le aziende zoppicanti venivano nell’uno o nell’altro caso – sempre a spese del contribuente e senza nessuna perdita per l’antico grande azionista – salvate dal tracollo, e la “pace sociale” era ristabilita. Il procedimento era chiaro e lampante: lo Stato agiva senza veli a difesa della classe padronale.

Come in tutte le altre manifestazioni della sua esistenza, il regime democratico persegue gli stessi fini ma con ipocrisia gesuitica; prima che lo Stato intervenga (e allora interviene fingendo di farlo contro voglia), è necessario tutto un lavorìo “dal basso” in cui le forze dell’opportunismo sono chiamate a velare e nascondere i bruti e palesi interessi della classe dominante, e il salvataggio delle aziende (cioè dei capitali investiti in esse e dei profitti che da quegli investimenti si attendevano) va presentato come rivendicazione degli operai (cioè di coloro che le aziende sfruttano) o come obbligo sociale, morale e via discorrendo, finché anche questi termini non bastano, e chiude la fanfara l’obbligo “patriottico”, il motivetto fascista.

È la funzione che ha esercitato nel dopoguerra, in modo particolare, lo stalinismo. La crisi ricorrente e galoppante dell’industria italiana, che a raggruppamenti che rappresentassero davvero gli interessi operai avrebbe dovuto fornire una ragione di più per un attacco su tutto il fronte della lotta di classe alla borghesia nazionale, ha invece ispirato, com’era naturale, al superopportunismo staliniano la parola d’ordine del salvataggio azienda per azienda dell’apparato economico sul quale la classe dominante fonda la sua stessa esistenza, salvataggio al quale i governi sono sollecitati col pretesto della difesa del pane e del lavoro della classe operaia. L’operazione avviene non senza la recita di una commediola in cui azionisti e dirigenti delle rispettive aziende versano lacrime di coccodrillo sul peso della mano d’opera esuberante, sui sacrifici che hanno dovuto compiere per tirare avanti nel nome della fraternità democratica, sull’intollerabile intromissione degli organi pubblici; anche questa commediola va recitata per gli stessi motivi di ipocrisia gesuitica, ma il risultato è sempre uno – l’azienda fallita o in procinto di fallire o semplicemente bisognosa di quattrini (senza rischio degli azionisti di gran classe) pompa quattrini allo Stato e continua a vivere, senza nessun sforzo di rimodernamento e nessuna iniziativa di avanguardia, al patrio e tradizionale sole della commessa statale e della protezione pubblica.

Senonché questa politica di salvataggio “dal basso”, che era privilegio fino a poco tempo fa dello stalinismo, comincia ora ad essere fatta propria – a dimostrazione della sua finalità di conservazione borghese – dalle stesse forze del partito di governo e degli “attivisti della Chiesa”, al fine di strappare al patriottismo “comunista” una duplice simpatia, quella degli operai dell’azienda singola e quella degli imprenditori. Al motivo degli “interessi proletari”, vediamo così affiancarsi – e rendere ancora più indigeribile e piratesco l’intruglio – le idealità morali, i versetti evangelici, le omelie pastorali, i comandamenti religiosi. Il campo sperimentale di quest’offensiva di attivismo cattolico, ammantato di rugiadoso affetto per gli operai e diretto a chiedere allo Stato di salvare dal fallimento gli azionisti (pardon: l’azienda, tesoro collettivo nazionale) è stato negli ultimi tempi e continua ad essere Firenze, dove intorno alla Pignone danzano insieme gli attivisti neri e “rossi”, e La Pira spalleggia gli occupanti dell’azienda, e rifornisce di materassi e di messe gli operai, e spedisce telegrammi al governo e ai presidenti della Camera, e riceve ogni giorno ed ogni ora le congratulazioni e le attestazioni di solidarietà (non prive di qualche gelosia) dei dirigenti sindacali e politici dello stalinismo. Sappiamo bene come finirà la storia: lo Stato pagherà lo sbilancio dell’azienda, questa riprenderà a personale ridotto (dopo qualche tempo per lasciar sbollire i rancori e sfibrare la resistenza delle maestranze), e il parassitismo della classe dominante sarà mascherato dal passaggio dell’impresa nei ruoli dell’I.R.I. od altro organismo del genere, mentre d’altra parte governo e partito di governo si saranno fatti propaganda come tutori degli interessi di chi lavora, e Chiesa e parrocchie avranno velato di filippiche contro l’egoismo padronale un ennesimo episodio di difesa della pirateria capitalistica, e lo Stato-padrone avrà fatto un altro passo avanti.

Cosi attivismo nero e “rosso” collaborano a quella identificazione degli interessi operai con gli interessi dell’azienda prima e dell’economia nazionale poi, che era l’alfa e l’omega della politica fascista, col solo risultato che la carota ha sostituito il bastone, ma il bastone c’è anche se non si vede.

Cinque scellini

È stato assolto a Nairobi l’ufficiale inglese imputato (e reo confesso) di aver ucciso due indigeni in un’elegante competizione sportiva che comportava fra l’altro la esposizione in caserma della classifica dei negri ammazzati, feriti e fatti prigionieri (non risulta, ma non è nemmeno escluso, che la classifica servisse di tabella al locale totocalcio) e un premio di cinque scellini ai soldati che ne avessero ucciso uno.

L’assoluzione, evidentemente, rispecchia un calcolo economico: per 5 scellini, pari a circa quattrocento lire, il massacro dei negri del Kenya viene a costar poco, ed è certo che, nella classifica dei macelli coloniali, passerebbe in testa. Che poi i parlamentari inglesi si scandalizzino, fa parte della commedia di tutta la storia coloniale del capitalismo: scandali dello stesso tipo hanno costellato la guerra dei boxers o dei boeri e le avventure in India, il che non ha impedito agli scandalizzati di difendere strenuamente un impero fondato, come tutti gli imperi coloniali della splendida era borghese, sul sangue vile dei sottomessi e sul sangue blu dei dominanti.

È uno scandalo, a Trieste scioperare per il ventre

I sindacati triestini dei diversi colori sono prontissimi, come si è visto da precedenti corrispondenze, a promuovere scioperi (d’altronde falliti) per la rivendicazione di Trieste italiana, jugoslava o «libera»; è invece uno scandalo, per loro, che i proletari si agitino finalmente per rivendicazioni proprie, della propria classe.

Con la nota dell’8 ottobre e i conseguenti (ma finti) movimenti di rimpatrio, la situazione economica di Trieste, già delle più solide, è improvvisamente precipitata. Battuta da una gragnuola di colpi micidiali, la città stenta non soltanto a riprendersi, ma a «mantenere le posizioni». L’edilizia, che impiegava migliaia di lavoratori, è entrata in una crisi di cui si vedono chiaramente gli sviluppi e le conseguenze, ma non il modo di guarirla, essendo state rimandate sine die buona parte delle opere in progetto, così come la vendita dei fondi per case di abitazione.

D’altra parte, il G.M.A. ha cominciato su vasta scala il licenziamento dei propri dipendenti: finora circa 1200 su un totale di 5000 (compresa la polizia civile, «la migliore del mondo»). Rimpatriando le famiglie, è logico che vasti settori dell’economia cittadina — negozi di abbigliamento, generi alimentari, drogherie, bar, cinema, ecc. — abbiano accusato in maniera sensibile il colpo: di qui il sordo malcontento che serpeggia negli strati piccolo-borghesi, mentre la crisi edilizia e industriale spinge gli operai e i disoccupati ad agitarsi in manifestazioni una volta tanto spontanee e a sfondo di classe, provocate dalla miseria, dal malcontento, dal rancore contro i metodi della classe dominante.

È appunto dal settore degli antichi disoccupati — 500 o 600 senza lavoro da più di un anno e continuamente posposti nei turni di riassunzione — che sono partite le recenti manifestazioni, nate fuori dai sindacati. Esse dovevano però fallire con l’entrata in campo dei Sindacati Uniti di Radich e della Camera del Lavoro del dott. Novelli, i quali, se apparentemente sono cane e gatto e si combattono in aspre polemiche, sono però uniti nella difesa dello status quo borghese, e, scendendo in azione, non potevano che imbrigliare prima e stroncare poi tutto il movimento.

Essendosi accorti che la totalità dei manifestanti sfuggiva al loro controllo ufficiale, essi hanno additato all’opinione pubblica — attraverso comunicati sui giornali (vedi Giornale di Trieste, Ultime Notizie, Unità, ecc.) — i dimostranti come assoldati da Tito o quanto meno da agenti provocatori (quali? quelli che hanno provocato la miseria e lo stato di emergenza economica in cui versa la città?) infiltratisi nella massa per provocarne i «movimenti inconsulti» (inconsulti per i sindacati, ansiosi prima di tutto di incassare bollini). Questa posizione di condanna si spiega con tutta la politica dei partiti che ispirano le organizzazioni sindacali triestine, politica che è di «unione fra le classi», di patriottica solidarietà, di difesa della «patria» e che non tollera manifestazioni di classe, ma soltanto di tregua fra le classi.

Noi denunciamo l’antisociale contegno dei Sindacati Unici, vero baluardo padronale, e della Camera del Lavoro, ben noto sodalizio fornitore di crumiri, sorto per ispirazione del pretume locale con alla testa don Marzari, ed esprimiamo la nostra solidarietà coi disoccupati additando al disprezzo dei proletari la canea degli urlanti alla «provocazione», canea che va dal giornalismo multicolore ai Sindacati Uniti, dal sindacato democristiano fino alla Camera del Lavoro e a tutti i partiti democratici, o fascisti in veste democratica.

Il corrispondente

Sgambetti fra cugini

Non è una novità che, alla base della splendida alleanza anglo-americana, c’è il graduale, inevitabile passaggio delle posizioni imperiali britanniche agli Stati Uniti. L’Inghilterra ha ripetutamente protestato contro questo gioco, già in corso durante la II guerra mondiale che pur segnò il vertice di quell’alleanza (si vedano le conferenze di Teheran e Yalta), ma non ha potuto mai fare nulla per impedire un corso che si fonda sulla netta prevalenza economica e finanziaria americana e che, da altro canto, impedisce il passaggio delle posizioni imperiali in oggetto nella cerchia di altre influenze.

Il processo è tuttora in corso e l’ultimo episodio, mentre nell’Iran gli Stati Uniti lavorano per la sostituzione di un ente internazionale per la gestione dei pozzi e delle raffinerie petrolifere (nel quale ente la partecipazione azionaria americana sarebbe pari a quella britannica) all’ex Anglo-Iranian, è quello del lavorio che si sta svolgendo fra Washington e il Pakistan, recentemente erettosi in Repubblica indipendente nel quadro del Commonwealth, per un collegamento militare ed economico di quel Paese agli Stati Uniti. Si è parlato addirittura della cessione di basi militari in cambio di aiuti americani per la riorganizzazione e istruzione e riarmo dell’esercito pakistano per costi valutati a 250 milioni di dollari — qualcosa di simile agli accordi ispano-americani. Le voci sono state smentite ma, come osserva Relazioni Internazionali, in una «forma che equivaleva a una conferma» e, comunque, l’orientamento filo-americano del nuovo governo del Pakistan è indiscutibile, e rafforzato dalle difficoltà economiche che il Paese attraversa e che lo spingono a chiedere aiuti per la propria… autonomia all’imperialismo più forte e più interessato per ragioni diverse alla sua stabilità. Ce ne stupiremo? È il vecchio gioco dei contrasti imperialistici, non alieni dallo sfruttare a tale scopo anche i movimenti di tentata indipendenza nazionale delle colonie.

Franco eredita i consigli di gestione aziendale

Abbiamo tante volte illustrata la funzione controrivoluzionaria dei consigli di gestione, venuti di moda dopo la seconda guerra mondiale, per aver voglia di ripeterci. Basterà dire che, visti dai democratici cristiani tedeschi o dai «comunisti» nostrani, essi sono organi di conciliazione dei conflitti sociali all’interno della azienda, di stimolazione della produzione, di stabilizzazione sociale, gli strumenti di una mentalità fra aziendalista e corporativa.

Il regime franchista se ne è reso ben conto, e ha, con decreto dell’11 settembre u.s., previsto l’introduzione nelle aziende con più di 50 addetti (temporaneamente in quelle con più di 1000) di «jurados de empresa», o consigli di azienda, i cui scopi — elencati dal decreto — potrebbero essere sottoscritti tali e quali da Di Vittorio, Pastore, Adenauer, e… La Pira. Il consiglio è definito «unità dell’armonia del lavoro» e tende alla realizzazione della collaborazione all’interno dell’azienda, dell’aumento della produzione aziendale e dello sviluppo dell’economia nazionale (Di Vittorio e Togliatti, fatevi avanti! Vi hanno rubato la parola! Chiedete i diritti d’autore!): esso sottoporrà alla direzione proposte di aumento della produzione, di miglioramento del ritmo di lavoro, di risparmio delle materie prime, di manutenzione del parco macchine (anche qui, siamo in pieno vocabolario staliniano): trasmetterà pure rilievi e proteste delle maestranze per il trattamento ricevuto da parte dell’azienda, e riceverà a sua volta dalla direzione, ogni anno, tutte le notizie necessarie per orientarsi sul bilancio aziendale e sulla situazione di mercato, mentre curerà il regolare funzionamento degli istituti sociali introdotti dal regime in campo assicurativo, assistenziale, cooperativo, ecc.

Non c’interessano le altre disposizioni di carattere tecnico: resta il fatto che l’idea dei consigli di gestione è stata ripresa tale e quale dal regime più tipicamente corporativo che esista in Europa, per scopi che i nostri e meno franchi dirigenti democratici non proclamano apertamente e che sono quelli della mussoliniana carta del lavoro trasportata nell’ambito dell’azienda. Conciliare capitale e lavoro, cioè interessare quest’ultimo non all’abbattimento ma al mantenimento in vita di quello — mantenimento che implica appunto l’aumento della produzione, la razionalizzazione dei metodi di lavoro, la «partecipazione» alla vita dell’azienda dei suoi dipendenti, l’appianamento delle divergenze interaziendali e degli enti classisti (il sogno di Pio XII come degli eredi di Stalin) — è lo scopo comune delle cosiddette «sinistre estreme» e delle altrettanto così dette «destre estreme», passando per tutte le sfumature del centro democratico. Parlano tutti lo stesso linguaggio, praticano tutti la stessa politica, e il più «furbo» è, dal punto di vista capitalistico, chi parla e razzola così: l’industriale della Ruhr e quello all’insegna di Franco, coi loro consiglieri di tutte le tinte.

Guiana

Tanto per completare le note sulla Guiana. Questo possesso britannico è, in realtà, l’Impero della Società. « Booker’s Bros » di Londra, nelle cui mani è la quasi totalità delle piantagioni di zucchero e che esercisce inoltre alberghi, negozi. fabbriche, garage, linee di navigazione, imprese giornalistiche, ecc.

Nel 1951, il capitale della Booker’s ha fruttato profitti pari al 62,5 per cento , nel 1952 profitti pari al 50,7 per cento, e per ogni azione è stato distribuito un dividendo netto da imposte del 19 1/2 per cento. C’è bisogno di pensare alle « quinte colonne » per spiegare il tenero amore della mano d’opera negra per l’« Impero della Booker’s », come è chiamata efficacemente la Guiana?

Giovani nati vecchi

Nel secolare tempestoso percorso del movimento operaio, ora faticosamente spinto su posizioni rivoluzionarie da agguerrite avanguardie duramente formate in sotterraneo lavoro, ora trascinato sulle secche dell’opportunismo controrivoluzionario da corrotte burocrazie reclutate nella piccola borghesia, i giovani hanno costituito in ogni caso l’avanguardia dell’avanguardia, le truppe volontarie di prima linea nella guerra di classe e, impresa molto meno entusiasmante e pertanto molto più ardua, nell’oscura snervante fatica di smascheramento dell’opportunismo annidato nel corpo del movimento.

Il legalitarismo servile, lo spirito venale, l’ipocrisia ideologica degli «apparati» opportunisti non hanno avuto nel passato nemici più intransigenti e accusatori più spietati delle formazioni giovanili del movimento, tradizionalmente schierate nelle ali sinistre. Il sapere ciò, di quanto accresce la pena e la nausea che ci viene dallo spettacolo tristissimo della putrefazione opportunista di certi giovani che pretendono di continuare le tradizioni del movimento giovanile sorto in seno al vecchio P.S.I. passato poi a bandiere spiegate nel Partito Comunista d’Italia al Congresso di Livorno 1921! Ma di quei giovani armati di un odio profondo contro l’opportunismo, codesti giovani che bazzicano le case di malaffare dei Ministeri recando suppliche, evvia, non sono che le suole delle scarpe!

Quale intollerabile differenza! Al Congresso di Livorno, a conclusione di una dura lotta di smascheramento delle incrostazioni riformista e massimalista, alle cui arti dissimulatrici neppure l’Internazionale Comunista aveva mostrato di saper sottrarsi interamente, i giovani comunisti furono l’anima e il cuore della scissione. Non vollero per nessun motivo rimanere nel vecchio Partito Socialista, ormai guadagnato al nemico borghese; ruppero violentemente con Turati, respinsero sdegnosamente gli ambigui disegni di Serrati. Non un solo giovane rimase con i riformisti e i massimalisti: la Federazione Giovanile Socialista forte di 50.000 iscritti aderì in blocco, senza alcuna scissione congressuale, al P.C. d’Italia e all’Internazionale. Che vediamo oggi?

Giovani che si definiscono socialisti e comunisti, e continuatori delle tradizioni del Movimento Giovanile Comunista, manifestano per l’ annessione di Trieste all’Italia, si fanno ricevere dal Presidente del Consiglio per consegnargli una dichiarazione lorda di sciovinismo! Ma il Partito Socialista Italiano pur bacato da tutti i vizi dell’opportunismo non rifiutò nel 1915-18 di appoggiare la guerra della borghesia italiana che fu appunto giustificata dai Mussolini e dai Corridoni con il preteso carattere rivoluzionario della liberazione dei territori italiani occupati dall’Austria-Ungheria?  I riformisti turatiani e i massimalisti di Serrati si illudevano nel primo dopoguerra di essere internazionalisti pur rifiutandosi di seguire il programma rivoluzionario dell’Internazionale Comunista. Respingevano il nazionalismo annessionista, ma non per tanto cessavano di servire la borghesia. Non ebbero tuttavia la sfrontatezza di gettarsi apertamente in braccio ai partiti borghesi. Se contatti equivoci vi furono, mostrarono di vergognarsene.

Gli sfacciati opportunisti dei giorni nostri non soffrono di tali delicatezze. Mandano la loro gioventù a trescare con i loro degni compari borghesi e riescono a non fargli sentire più l’odore di marcio che questi tramandano. Anzi si fregano le mani, come giocatori di azzardo favoriti dalla fortuna. Fanno scrivere sulla loro stampa che al colloquio con Pella il rappresentante della Federazione giovanile comunista si è accompagnato con i rappresentanti del Movimento giovanile monarchico, della Federazione giovanile del P.S.D.I., della federazione giovanile del P.S.I., della Federazione giovanile repubblicana, della Gioventù liberale, e, alleluja, alleluja!, dei Gruppi Giovanili della Democrazia Cristiana. Nomi e cognomi dei futuri uomini politici del Parlamento italiano sono riportati dall’ «Unità» (22.11.53). Noi non li ripetiamo: ci fanno troppa pena e ripugnanza, con la chierica o senza…

Questi i giovani socialisti e comunisti… I nipoti di coloro che nel 1921 schifarono persone che pur essendo opportuniste stavano agli attuali capi arci-traditori del P.C.I. e del P.S.I. come una verginella sedotta ad una cortigiana di professione! Essi non disdegnano di andare a braccetto con monarchici e sacrestani democristiani a prendere un vermouth  da Pella. Ma sono giovani codesti lecchini di anticamere ministeriali? Qui la degradazione carrieristica gioca un tiro all’anagrafe. Sono giovani nati vecchi.

E poi negano la concorrenza pacifica!

Perché diavolo vadano cercando, i reggitori di Oriente ed Occidente, la possibilità di una concorrenza pacifica, davvero non si capisce, quando ce l’hanno già lì sotto mano, e la praticano con tanto fervore.

Prima concorrenza pacifica: quella in armi nuove. Se Washington annuncia di possederne in quantità, si può esser certi che lo stesso vanto, poco dopo, annuncerà Mosca. Ed è l’unica concorrenza veramente pacifica che i due blocchi si facciano, giacché, mentre sul terreno commerciale è possibile che, su questo o su quel mercato, si facciano la forca, le armi nuove non le mettono in commercio ma le tesoreggiano come il contadino francese tesoreggia le monete d’oro nella calza di lana, e non c’è pericolo che pratichino il dumping delle bombe atomiche e all’idrogeno, perché ciascuna delle due grandi potenze se le tiene per sé. Quasi quasi ci sarebbe da augurarsi, per la stabilità di quel migliore dei mondi possibili che è il capitalismo, che non si producessero se non… armi nuove!

Seconda concorrenza pacifica: le iniziative di pace. Se Washington o Mosca lanciano l’idea di una conferenza dei quattro (o, subordinatamente, dei cinque), la controparte, prima, silura l’iniziativa, poi passa subito alla controffensiva e lancia a propria volta come sua la proposta. Il risultato è che le conferenze non si radunano, ma la concorrenza si svolge nel più pacifico dei modi; e, quando si radunano, non approdano a nulla, ma aprono un nuovo ciclo di corsa pacifica all’inseguimento.

Tutto ciò, a noi poveri mortali, sa di amaro: ma siamo dei poveri mortali, e i governanti del mondo sono come gli dei dell’Olimpo e hanno il diritto di divertirsi, naturalmente alle nostre spalle…

La giustizia borghese perfeziona i suoi metodi

Le prove di assoluta mancanza di serietà che sta dando la Giustizia borghese, rafforzano la convinzione nostra che, a dispetto di ogni calunnia illuminista contro il Medio Evo, l’unico procedimento giudiziario serio apparso nella storia è l’Ordalia. Sissignori, il Giudizio di Dio. Si sa in che consisteva. Quando mancavano prove convincenti i Barbari sottoponevano ad un arduo e doloroso esperimento la persona sospettata, con la convinzione che Dio, dall’alto dei cieli, ne avrebbe dimostrato l’innocenza facendogli superare la prova. Saggiamente, i nostri remoti antenati non avevano fiducia nella perspicacia investigativa dei loro simili, e dire che al loro tempo non esistevano le sterminate metropoli, ove un Reginald Christie può massacrare tranquillamente mezze dozzine di donne senza che i vicini se ne accorgano…

Le prove contemplate dall’Ordalia, ad esempio la prova dell’acqua bollente in cui bisognava immergere la mano o il braccio, oppure la prova del fuoco per cui l’imputato doveva passare tra le fiamme, erano così poco superabili che si è autorizzati a concludere che con esse si mirava a colpire più il reato che il colpevole. Se era l’innocente a soggiacere, gli restava pur sempre la possibilità di ricorrere alla Suprema Corte di Cassazione di Domineddio.

I nostri magistrati usciti dalle Università sono convinti invece che, a prescindere dal giudizio che Domineddio possa farsi ad esempio di Lionello Egidi o di Corbisiero, la Giustizia con la maiuscola possa penetrare ovunque, essendo infallibile ed incorruttibile. Una ordalia non ufficiale continua però a sussistere, nonostante il tale e tal’altro articolo della Costituzione, nelle camere di sicurezza e nelle celle di segregazione dei carceri, che sono poi le vere sedi, contrariamente a quanto possa pensarsi delle aule dei tribunali, del potere giudiziario. Se ciò non fosse vero, se gli interrogatori di «terzo grado» non fossero un ammodernamento della prova dell’acqua bollente, del fuoco, della croce o dell’eucarestia, non si dovrebbero verificare, come sta succedendo ormai con normale puntualità, che imputati che rendono totali e particolareggiate confessioni nelle inaccessibili pertinenze delle autorità di polizia siano poi riconosciuti innocenti in sede di giudizio.

Non scherziamo affatto. Come non ha scherzato affatto Harry Truman, l’ex presidente degli Stati Uniti, che accusato dal F.B.I. (Federal Bureau of Investigation) di concorso in spionaggio a favore della Russia non ha perso tempo a negare. Egli, è vero, non è riuscito ad evitare di venire sbalzato dalla carica presidenziale, ma l’essere riuscito a starci per circa otto anni non gli ha impedito di capire che, essendo provato che i tribunali molto spesso condannano gli innocenti, la migliore difesa per l’imputato, l’unico sistema per evitare la condanna è quello… di dichiararsi colpevole. Egli ha mostrato di sapere che l’imputato all’altezza della situazione, deve anzitutto sottrarsi alle investigazioni della polizia. Essendo provato che la polizia, come facevano del resto gli sbirri dei bargelli e dei prevosti medioevali e i famigli della Santa Inquisizione, fa sempre confessare all’imputato tutto ciò che gli serve, specie se a certe confessioni sono interessati i politicanti al potere, il vecchio volpone si è affrettato ad accettare le accuse del F.B.I. nel modo in cui usa fare l’accusato intelligente, e cioè negando debolmente, di malavoglia. I fatti sono noti. Il F.B.I. ha motivato l’accusa a Truman di «concorso in spionaggio a danno delle Forze Armate degli Stati Uniti», col fatto che Harry Truman, mentre deteneva la carica di presidente degli U.S.A., mantenne Harry Dexter White nella carica di alto funzionario del Dipartimento del Tesoro e nominò costui Sottosegretario al Tesoro e successivamente Direttore per gli U.S.A. del Fondo Monetario Internazionale, nonostante un rapporto riservatissimo del F.B.I., col quale veniva comunicato che Harry Dexter White era una spia al soldo della Russia. I fatti accaddero nel 1946. Truman si decise a silurare White e ad autorizzare che costui fosse denunciato alla Commissione d’Inchiesta per le attività anti-americane, solo nei primi mesi del 1947, allorché il F.B.I. riuscì ad ottenere da Elizabeth Bentley, definita una spia russa, le dichiarazioni che White faceva parte della rete spionistica della Russia.

Il F.B.I. solo nello scorso novembre si è deciso ad inviare al Ministro della Giustizia Brownell un rapporto in cui si riesumavano i fatti suesposti e si chiedeva la citazione di Truman davanti alla Commissione d’Inchiesta presieduta dal russofobo senatore Mac Carthy. Ma il F.B.I. non ha creduto di degnarsi di spiegare perché Truman sia dichiarato traditore solo oggi, mentre già era provato che lo fosse fin dal 1946. Piccolezze. Ma se davvero la Giustizia borghese che si dice fondata sulle teorie di Montesquieu e Beccaria, fosse veramente quello che dice di essere, e cioè l’amministrazione dei diritti dell’individuo, un qualsiasi lustrascarpe negro di Manhattan potrebbe chiedere l’incriminazione del F.B.I. per aver taciuto i delitti di Harry Truman mentre questi era presidente degli Stati Uniti. Scommettiamo che se si restaurassero ufficialmente (nella pratica poliziesca non è mai cessato di funzionare fin dall’alto medioevo) l’ordalia, e si sottoponesse il direttore del F.B.I. alla «prova della sedia elettrica» il supremo giudice celeste negherebbe di farlo uscire vivo dall’elettroesecuzione.

Il grande mutamento in peggio che il sistema giudiziario borghese doveva introdurre nell’amministrazione dei delitti e delle pene, cioè la «libera» discussione pubblica delle istruttorie e dei giudizi attraverso la stampa, e poi la radio e la televisione, ha determinato le condizioni del formarsi di quei curiosi partiti misti, politico-giudiziari, che sono stati definiti degli «innocentisti» e dei «colpevolisti». I loro effettivi non sono rigidamente inquadrati. Ad esempio l’innocentista per Lionello Egidi, può benissimo militare nei colpevolisti per Harry Truman. Delizie del tempo nostro, ignote alle genti del Medio Evo, che avrebbero ritenuto atto empio revocare in dubbio sentenze che, tramite l’acqua bollente o le fiamme dei roghi, discendevano in ultima istanza dalla fonte divina. Ma il fatto è che ormai la gente oggi è perpetuamente divisa fra fautori e negatori dell’innocenza dei criminali del giorno. Gaston Dominici, il vecchio satiro massacratore per follia sessuale della famiglia Drummond, è colpevole o la sua confessione deve considerarsi estorta dalla polizia? Il maestro Graziosi uccise la moglie? Harry Truman veramente passava al Cremlino i piani del Pentagono oppure l’accusa del F.B.I. è una mossa propagandistica dell’Ufficio elettorale del partito Repubblicano al potere? Se ciò avviene, se tutti siamo ammessi a «giudicare» vuol proprio dire che il potere di giudizio è passato dal Padreterno al popolo sovrano…

Truman che queste cose le conosce bene, ha agito in conseguenza con stile impeccabile, ma ahimè! non originale. Prima ha quasi accettato le accuse del F.B.I., poi in un secondo momento ha ritrattato le accuse nel corso di una clamorosa teletrasmissione. Tutta l’America, raccolta attorno al ring del match Truman contro F.B.I. doveva sentire l’ex presidente ammettere di aver ricevuto le prove di colpevolezza di White e di averlo considerato un traditore fin dal 1946, ma respingere, con estrema energia e violenza di linguaggio, l’accusa di tradimento o per lo meno di favoreggiamento del tradimento. A provarlo il furbacchione sosteneva di aver lasciato libero White per non compromettere la riuscita di una operazione investigativa che in quel torno di tempo il F.B.I. stava conducendo contro l’organizzazione spionistica russa negli Stati Uniti. Per dare consistenza al suo alibi, egli riferiva al pubblico di telespettatori che all’epoca egli aveva debitamente informato il F.B.I. dei motivi del suo comportamento. Ma in una successiva trasmissione televisiva il direttore del F.B.I. Edgar Hoover negava ciò. Invano! L’astuto Truman aveva raggiunto lo scopo: ormai aveva e ha sulle spalle quella che si chiama una «corrente della pubblica opinione», fermamente convinta della sua buonafede.

Può darsi che, secondo la lettera e lo spirito della legge, Harry sia innocente. Ma se egli non avesse usato l’accorgimento di dichiararsi in sulle prime quasi colpevole, oggi non avrebbe gli appoggi che ha. Così faremmo noi se un giorno la polizia dovesse accusarci dei più impensati delitti, ad esempio di praticare l’antropofagia. Accetteremmo tutti gli addebiti. Che importa se innocenti? L’innocente che si proclama colpevole ha molte probabilità di essere assolto, tranne naturalmente le eccezioni, come Zinoviev, Kamenev, Bucharin, ecc… La giustizia borghese è fatta così.

Ma un dubbio ci assale. Dal 1941 al 1947 almeno, Stati Uniti e Russia non sono stati alleati in guerra? In tali condizioni il Presidente degli S.U. era al corrente dei piani militari del Presidente dell’U.R.S.S., e viceversa. A Teheran e poi a Yalta e Potsdam Roosevelt prima, Truman poi, concertarono insieme con Stalin e Churchill i piani di guerra contro la Germania, si confidarono i segreti dei rispettivi Stati Maggiori. Ed allora? Erano traditori tutti? Per assodarlo abbisogna una «prova» speciale, la prova della Rivoluzione.

I morti parlano in Polonia e in Italia

Giornali come la Domenica del Corriere o la Tribuna Illustrata ci hanno abituati a quella efficace forma di pubblicità dei prodotti medicinali che consiste nel provare fotograficamente i benefici effetti ricevuti dai pazienti. Il preparato X contro la calvizie? Si pubblicano due fotografie della stessa persona che figura in una quasi calva, nell’altra gloriosamente insignita di una folta capigliatura. Prima e dopo la cura, spiega la didascalia. Ma qualcuno può sospettare che nella cronologia reale, nel cuoio capelluto del preteso guarito il «dopo» sia scaduto prima, e viceversa. E chissà quante volte è la verità…

I clericali che leggono l’Unità potranno benissimo avere nutrito analoghi sospetti, esaminando le «prove» fotografiche riprodotte nel numero 24-11-1953 della «cura» ricostruttiva somministrata dal Governo polacco alle chiese nazionali. Potranno insinuare che le fotografie della chiesa polacca prese in epoche diverse, e cioè mentre era sinistrata e pericolante per eventi bellici, e dopo la ricostruzione effettuata con finanziamenti governativi vadano interpretate nel senso che le distruzioni debbano attribuirsi al governo. Noi invece siamo sicuri che, giusta quanto afferma la didascalia, che commenta il «prima e dopo la cura» delle chiese polacche, il governo popolare di Polonia abbia speso fior di quattrini per riaprire quella chiesa al culto.

E crediamo ad occhi chiusi a quanto aggiunge l’Unità: che esistono in Polonia 12.000 sacerdoti, che le monache sono aumentate di 20.000 unità rispetto al 1939, che vi sono 600 asili e 40 scuole elementari dirette da religiosi; che 454 asili e 127 Case del Fanciullo sono dirette dall’organizzazione religiosa «Charitas»; che vi si pubblicano un quotidiano e 63 periodici cattolici.

«Sono fatti. E fatti che parlano» esclama orgogliosamente l’Unità, mirando naturalmente a sbugiardare le «fandonie clericali». Va da sé che i clericali presi di mira sono quelli che salmodiano nelle chiese italiane e nel partito di Pella. I religiosi polacchi invece non hanno da lamentarsi del governo del «compagno» Bierut e del Partito staliniano dominante. Tranne qualcuno, come il cardinale Wyszynski cui è stato vietato recentemente dal governo di Varsavia di esercitare le sue funzioni per violazioni da lui commesse dell’accordo dell’aprile 1950 tra Stato e Chiesa. Ma per carità, nient’altro che l’interdizione doveva buscarsi il ribelle cardinale! Non è stato affatto arrestato, si affanna a precisare l’Unità.

Tanta foga è inutile, almeno per noi. Sì che vi crediamo, o benemeriti ricostruttori di chiese e protettori pietosi di preti, monache e confratelli. Sì, sono fatti che parlano: i vostri sporchi fatti di politicanti arciborghesi, anticlericali in principio, mecenati di preti in pratica.

Le ironie macabre dell’imperialismo

Gli Stati Uniti hanno presentato all’U.N.O., il 20 novembre, la seguente allegra proposta: «Noi, governi degli Stati membri delle Nazioni Unite, allo scopo di promuovere nel mondo un più alto tenore di vita e condizioni di progresso e sviluppo economico e sociale, siamo pronti a chiedere ai nostri popoli di devolvere, quando saranno compiuti sufficienti progressi verso il disarmo mondiale, una parte dei risparmi conseguiti attraverso il disarmo stesso, alla creazione di un fondo internazionale, nell’ambito delle Nazioni Unite, onde incrementare lo sviluppo e la ricostruzione dei paesi economicamente arretrati».

I «popoli arretrati» e i Paesi che attendono ancora di ricostruirsi dopo la tragedia della guerra, possono, come i cavalli, campare che l’erba cresce; il disarmo mondiale, in rapido progresso al rombo delle armi nuove, permetterà di costituire un fondo internazionale a loro favore! Qualcosa di simile alla promessa del Paradiso dopo morte.

Frattanto, gli Stati Uniti forniranno aiuti difensivi ai Paesi europei, quegli aiuti difensivi che sono presentati (nello stesso tempo che si propone una raccolta di fondi conseguiti mediante il disarmo…) come un mezzo di stimolazione delle economie nazionali europee, per 2 e passa miliardi di dollari, con la facoltà tuttavia di sospenderli oltre un certo limite finché gli interessati non abbiano proceduto alla ratifica del trattato della C.E.D. Carità in funzione di ricatto, come tutte le carità di questo mondo.

Le scadenze del patrio governo

Il patrio governo dell’onorevole Pella, che avrebbe dovuto essere temporaneo e svolgere un compito essenzialmente di ordinaria amministrazione in attesa di nuovi sviluppi della situazione, ha tutti i titoli per durare un pezzo, sebbene i diversi partiti fingano di protestare: esso è infatti lo specchio fedele della situazione caotica della economia e della società italiana, il modo migliore di amministrare la quale è appunto di tirare a campare con l’aiuto dei santi di Occidente e di Oriente.

Il bilancio del patrio governo è, comunque, delizioso. La sua terapia amministrativa è cominciata con una somministrazione in dosi ultrapotenti di patriottismo irredentista, che ha avuto il magico potere di stringere in fraterni abbracci intorno a Trieste tutti i partiti della costellazione parlamentare e di rinviare alle calende greche le famose «scadenze» al cui traguardo il governo avrebbe, con magnifico senso di altruismo, ceduto le redini ad altro e rinnovato ministero. Nel frattempo, industrie sono andate a rotoli ma sono state salvate (e forse sono andate a rotoli proprio per farsi salvare), una provvidenziale alluvione ha riaperto le cateratte della demagogia patriottica e della corsa agli appalti, scioperi sono stati rinviati e, se si faranno, si faranno nel clima di una potenziale fraternità fra partiti, le tariffe ferroviarie sono state aumentate, sono in progetto provvedimenti a favore degli esportatori grazie ai quali i nostri poveri industriali otterranno altre sovvenzioni, esenzioni e facilitazioni (senza contare i salvataggi di cui sopra), il provvedimento di amnistia stenta a nascere ma ha fin d’ora la funzione di accontentare tutti e nessuno, gli affitti cresceranno, i comunisti si agitano per una nuova edizione del fronte popolare, il Presidente viaggia, festeggiatissimo, nelle capitali europee di secondo grado, la lira è incrollabile, al Ministero degli Interni la polizia ha preso un profumo d’incenso e di olio santo.

Che amministrazione migliore potrebbe desiderare la classe dominante? C’è chi si agita per una miglior «qualificazione politica» del governo. La parola è oscura, ma che migliore qualificazione potete aspettarvi? Un governo che riesce a svivolare via sull’olio con così sereno ottimismo non lo trovereste neppure con la lanterna di Diogene. Le scadenze? Eh, quelle verranno; ma guai se qualcuno costringesse la classe dominante a saldarle!

Lavorare ma non troppo

Da quando si è cominciato a parlare dei «preti-operai», è apparso chiaro che la classe dominante — e per essa la Chiesa — non avrebbe lasciato cadere un’iniziativa destinata a sguinzagliare i pastori nelle file del gregge delle pecorelle smarrite e a seminarvi un cattolico controveleno alla ideologia rivoluzionaria. Si trattava (e, come risulta dalla dichiarazione dell’episcopato francese del 14 novembre, a questo hanno appunto mirato i colloqui dei tre cardinali francesi col Santo Padre) soltanto di disciplinare il movimento, reagendo alle sue tendenze centrifughe, collegando più strettamente i «preti-operai» alla chiesa e alla parrocchia, migliorandone la preparazione ideologica e mettendoli in condizione di non dover dedicare tutta quanta la loro giornata al lavoro, — il tutto per evitare che i sacerdoti cadessero a loro volta vittime dell’infezione rivoluzionaria e classista.

Sia detto per inciso, quest’ultima clausola (come dice la dichiarazione: che i preti-operai «si dedichino al lavoro manuale solo durante un periodo di tempo limitato») è una palese conferma del materialismo storico: chiunque ceda stabilmente la sua forza lavoro, è inevitabilmente portato a pensare in termini di classe, fosse pure protetto dallo Spirito Santo, talché la prima condizione di una sicura fedeltà del sacerdote alla sua «missione» è che non lavori o, al massimo, lavori «da dilettante». Non dubitiamo che, nel caso dei preti-operai, il datore di lavoro, interessato com’è allo sviluppo della loro sublime attività moralizzatrice, tollererà di buon grado che non timbrino il cartellino e, dovendo dedicarsi al lavoro manuale solo «durante un periodo di tempo limitato», saltino ore lavorative senza perdere — come qualunque operaio — il posto ed il salario.

Sono, questi, dei «costi di esercizio» della società borghese ai quali, sia pure con tirchieria, la classe padronale s’inchina sempre, al modo che sopporta i costi della sorveglianza notturna e della polizia statale o privata.

La ruota della storia torna indietro

Negli anni – non tanto lontani nel tempo ma, ahimè, molto lontani nel ciclo storico del movimento operaio – del primo dopoguerra e dell’incendio rosso del mondo, l’Ufficio Internazionale del Lavoro, appendice della Lega delle Nazioni, era bollato dall’Internazionale leninista come un’edizione minore di quel covo di ladroni – ancor più brigantesca anzi, perché ammantata di umanitarismo e di volontà di difesa dei lavoratori dei Paesi associati. Se l’Internazionale sindacale di Amsterdam era la centrale dell’opportunismo, il Bureau International du Travail era addirittura un’agenzia padronale, direttamente emanante dai governi borghesi di occidente e intesa a disciplinare legalmente, su un fronte mondiale, i rapporti fra capitale e lavoro.

L’U.R.S.S. stalinista entrò poi, com’era nella legge del suo distacco dalla tradizione rivoluzionaria, nella Lega delle Nazioni, poi nell’U.N.O. Ora ha chiesto – per la storia, in data 4 novembre – di entrare nella Organizzazione Internazionale del Lavoro, sia pure sotto condizioni d’ordine procedurale.

Quando la ruota della storia torna indietro, è inevitabile che faccia tutto il giro.

Democrazie progressive

Von Paulus, generale di Hitler, assediatore di Stalingrado e rimasto, per concessione speciale del collega del Cremlino, feldmaresciallo, è stato rimpatriato nella Germania orientale ed eletto sottosegretario agli interni con compiti speciali di riorganizzazione della polizia. Le democrazie progressive sono davvero in progresso: per riorganizzare la polizia di uno Stato che marcia verso il… socialismo, non c’è di meglio che un generalone prussiano.

Nel discorso pronunciato il 29 ottobre a Mosca, il ministro per la produzione dei beni di consumo ha dichiarato fra l’altro: «Le calzature aumenteranno con tempi rapidi; se nel 1953 ne produciamo 200 milioni di paia, nel 1956 ne produrremo 290 milioni, cioè il 45 per cento di più». Ne risulta che, nel 1953, i cittadini della «patria socialista» non possiedono ancora un paio di scarpe a testa e all’anno – essendo il numero di abitanti dell’U.R.S.S. superiore al numero di paia di scarpe annualmente prodotte – e che ne avranno poco più di uno all’anno nel 1956. Questo difetto non ha impedito all’industria sovietica di produrre le automobili di lusso di cui si bea l’Unità (a meno che esse sostituiscano il paio di scarpe mancante del cittadino medio): le automobili di lusso sono, infatti, più progressive delle umili scarpe da passeggio.

Stregoneria della rendita fondiaria

Agricolture senza moneta

A definizione del modo e del tempo di produzione capitalista non sta soltanto la fabbricazione degli oggetti manufatti da parte di lavoratori ammassati e non più isolati e la cessata appartenenza del prodotto al lavoratore.

Il capitalismo si definisce anche dall’introduzione del carattere mercantile per i prodotti della terra e la terra stessa – e ciò anche quando il prodotto agrario resti al lavoratore, come nella piccola coltura contadina. In linea molto generale si può dire che manifattura senza mercato e senza moneta non è mai esistita storicamente, anche prima che il lavoro dell’artefice parcellare cedesse il luogo alla grande lavorazione. Per lo meno il baratto deve esistere, ove un uomo vive con la sola attività di produrre, poniamo, sempre zappe o sempre scarpe: dovrà scambiare queste con i suoi alimenti.

Baratto, scambio, mercato e moneta sono infatti apparsi quando la differenziazione della tecnica produttiva da un lato, della gamma dei bisogni e consumi dall’altro, hanno dato grande rilievo alla produzione sistematica dei manufatti. Vi sono state merci prima che uscissero dalle grandi aziende dell’imprenditore capitalista: ne hanno prodotte gli schiavi dell’antichità classica perché le smerciasse il loro padrone, i liberi artigiani del Medioevo smerciandole da se stessi.

Risalendo fino al primo clan comunista possiamo solo trovare che, al fianco dell’agricoltura collettiva e senza diritto personale sui prodotti alimentari, vi fossero alcuni membri della comunità adibiti a lavoro operaio: ma essi erano nutriti sull’ammasso dei prodotti comuni e forgiavano la zappa che doveva sostituire quella consunta quando ciò occorreva, senza diritto di proprietà personale sulla zappa (né da parte del fabbro né da parte dello zappatore).

Ma dal momento in cui la proprietà privata è comparsa, applicata alla terra ed anche applicata all’uomo stesso, la produzione agraria (includendovi l’allevamento degli animali domestici) si effettua in molteplici e generalizzate forme senza intervento di scambio e formazione di merci.

Nella piccola coltura familiare su un campo ormai delimitato lavorano tutti i componenti di essa atti alla fatica, e con determinati cicli sono accumulati i prodotti agrari che tutti consumano. Tale economia vive in un’isola, come tante volte detto, perfettamente chiusa. Nel senso economico non entra e non esce ricchezza o valore; nel senso fisico non esce alcun prodotto di lavoro ed entra soltanto energia termica della radiazione solare, la quale è tanto adatta a trasformarsi in chimismo della terra quanto in forza dei muscoli animali ed umani, ed anche in conoscenza organizzativa collettiva, che le sacrestie della cultura chiamano Pensiero, virtù dell’Io – il solo arnese che di per sé non serve a nulla, o al più come un poco di concime, il che anche gli vieta, a quanto si dice, la sua natura “spirituale”.

Supponiamo che nella nostra isola, o compartimento stagno, si stabilisca un equilibrio permanente, uno stato di regime, tra il numero di uomini e di animali e l’estensione della terra (l’intelligentissimo clan comunista non figliava a casaccio, per esistenziali pruriti del soggetto) senza che questa esaurisca la sua fertilità. Allora il dare ed avere della terra, nel suo chimismo ciclico, sarà in pareggio perfetto: il suolo nulla avrà donato alla comunità vivente. Tutta la energia incorporata, nelle sue successive forme, dovrà, ad uno stadio del ciclo, assumere quella di energia muscolare umana e se volete energia organica: il cervello è anche lui un organo.

Fin da questo lontano caso e salvo il consumo di prodotti spontanei di cui abbiamo visto qual conto facesse Lenin (e sappiamo pure che le infiorate indigene delle isole della felicità e dell’ozio, di uno o di due arcipelaghi del Pacifico, si scritturano ormai per il cinema americano in sonanti dollari), si può impiantare la polemica: i valori (per il momento solo di uso e non di scambio), li genera la Terra o il Lavoro?

Economie naturali

In forme di produzione senza scambio sul mercato, ma basate sulla già apparsa proprietà, può già aversi il plusvalore. Indichiamo col termine abbreviato economia naturale quella in cui non si ha scambio e moneta ma solo movimento di prodotti materiali, il che non esclude che sia già comparsa la suddivisione dei componenti della società tra lavoratori e non lavoratori. Quando il vecchio Adamo Smith definisce la rendita fondiaria, egli, sebbene sia mosso

dal desiderio di spiegarne l’aspetto, da tempo assunto nell’Inghilterra borghese, di entrata in moneta al proprietario giuridico, include nella definizione il concetto di rapporto in natura e la formula, tra la critica severa di molte altre, è accettata da Marx:

“Dal momento in cui il suolo di un paese è divenuto tutto proprietà privata, piace ai proprietari fondiari, come a tutti gli altri uomini [poteva anche dire: come a tutti gli animati], di raccogliere dove non hanno seminato, ed essi esigono una rendita perfino per il prodotto naturale della terra… Egli (il lavoratore) deve cedere al proprietario del suolo una porzione di ciò che raccoglie o che produce col proprio lavoro. Questa porzione o, ciò che è lo stesso, il prezzo di questa porzione, costituisce la rendita fondiaria”.

Dunque concetto principale: una parte del prodotto – concetto storicamente contingente e proprio del modo capitalistico mercantile: il suo prezzo in denaro. Così anche chiusi in una di quelle famose isole, possono vivere un proprietario di schiavi con la sua famiglia, che non solo raccolgono senza aver seminato, ma fanno anche raccogliere a qualche altro (non era venuto ancora Mussolini a trebbiare con le sue mani) quel che si pappano – e dall’altro lato gli schiavi e le famiglie schiave che lavorano. Tutti mangiano i prodotti della stessa terra, ma lo schiavo lavoratore trasforma, poniamo, coi suoi processi muscolari, quattromila calorie in arrivo dalla centrale solare e ne consuma solo duemila. Altro non è il plusvalore, misurato non ancora in sterline, ma in unità di energia. Ed infatti allorché i primi economisti cercano il valore del lavoro operaio, subito si scava l’abisso tra loro e noi marxisti; non lo misurano in uomini-vapore o in calorie (cosa perfettamente identica giusta l’equivalente determinato la prima volta dal fisico Joule) ma lo misurano giusta il prezzo di mercato delle sussistenze che bastano a far vivere l’operaio. Petty lo disse brutalmente:

“La legge… dovrebbe appunto accordare al lavoratore i mezzi indispensabili per vivere; poiché se gli se ne accordasse il doppio, egli allora lavorerebbe soltanto la metà di quanto avrebbe potuto lavorare e avrebbe lavorato altrimenti; e per la società [!] ciò rappresenta una perdita del frutto di una uguale quantità di lavoro”.

Evidentemente per i primi (come per gli ultimi) teorici del capitalismo il pubblico che interessa è formato da quelli che raccolgono ove altri ha seminato. Sono dunque economie naturali non solo quella della gens comunista ove son tutti a seminare, ma anche quella agraria schiavista e quella medievale terriera. Nell’ingranaggio della società feudale esiste invero un mercato, ma soprattutto di prodotti artigiani manufatti e assai limitatamente come mercato di prodotti agricoli. Ben vero nelle poco sviluppate città la classe artigiana e la poco numerosa classe di funzionari e professionisti liberali trovano ove acquistare contro moneta i loro alimenti, recati dal contadino suburbano, oppure una certa aliquota di costoro già possiede un po’ di terra agraria resa privata e ne ritira i prodotti. Ma il rapporto delle due classi fondamentali: lavoratori della terra e nobili, è regolato non mercantilmente; anzi avviene lo stesso anche per l’ordine sacerdotale. I contadini servi della gleba hanno un certo campo il cui prodotto serve loro di alimento, ma dopo averlo raccolto devono farne una detrazione per la quota che va portata in natura alla casa del signore e per la decima da portare ugualmente in generi alla parrocchia. Il contadino servo della gleba non ha bisogno di fare uso di moneta, come non ne ha bisogno il signore e il prete. Ben s’intende cominciano, in tutto il più vicino Medioevo, i primi accumuli monetari che si sviluppano col commercio e l’usura, e il signore non si limita più alla solita borsa di denaro non contato che nelle grandi occasioni lancia con disprezzo ad un sicario, ma comincia ad avere una cassa, un’amministrazione e un borsellino personale. La trama mercantile si va costruendo sempre più fitta, ma il grosso della produzione agraria funziona senza dovervi fare ricorso.

Marx e i suoi studi – che non sono appunti di letture, ma schemi luminosi della nuova teoria rivoluzionaria – sugli economisti precedenti, ci saranno di guida in questo trapasso dall’economia naturale a quella di scambio, in cui protagonista della lotta sociale è la classe borghese e di immenso interesse sono le teorie che essa stessa elabora sul suo sviluppo, esempio di quanto sia vero che ultimo elemento di una trasformazione storica è la “coscienza”, anche collettiva, mentre chiave di essa è la determinazione dalla base economica e il materiale scontro delle forze e delle masse umane in gioco.

Moderna agricoltura mercantile

La forma data dal capitalismo all’agricoltura è quella di mercato, dopo avere schiodato dalla terra da una parte il lavoratore reso “libero” e dall’altra il barone feudale, sopprimendo la inalienabilità del feudo e concedendolo ai borghesi suoi creditori, o concorrenti alle aste, in parte vendendolo a lotti al piccolo e medio contadino. Da questo immenso processo sono sorte svariate forme di esercizio della produzione agricola che tuttora vivono e accompagnato la possente industrializzazione moderna nel campo della produzione di manufatti e servizi diversi.

Per distinguere tra queste forme ci rifaremo anzitutto e dopo aver bene ribadita la preminenza del metodo di derivazione storica, alla chiara, scientifica esposizione dei buoni trattatisti. Riportandoci ancora una volta allo studio Proprietà e capitale apparso nella rivista “Prometeo”, ricorderemo come la borghesia rimpiazzò i vecchi codici e

investiture feudali con una applicazione piena del “diritto romano” alla privata proprietà del suolo, nella sua tutela e nella sua trasmissione sia ereditaria che contrattuale. Non ripeteremo come uno stesso meccanismo di articoli vale per lo strappo di terra della famigliola contadina e per la proprietà di migliaia di ettari, e quale sia il senso di questo dispositivo.

Lo studio economico mette infatti in evidenza, al posto del criterio di proprietà che è puramente giuridico, quello ben diverso di azienda. Questa essenziale distinzione fu messa avanti da quando comunisti, il cui orizzonte si limitava ad un sindacalismo chiuso nella fabbrica moderna, non capirono nulla delle tesi agrarie dell’internazionale di Mosca e le scambiarono per cose nuove; ma la cosa non è stata digerita dai quattro scolaretti bocciati che oggi fanno da sinedrio specializzato per il comunismo ufficiale di Mosca. La loro vuota demagogia di agitazione è sdrucciolata fino alle – geniali a tempo loro – posizioni dei fisiocratici, ossia alla lotta per la ricchezza-terra e per la spartizione della miseria titolare. Il manuale di economia anatomizza dunque l’azienda agraria e non la proprietà, per sviluppare la genesi della rendita. Ben vero i primi economisti ci dettero anche ammissione che senza l’impalcatura legale la rendita mercantile non sarebbe nata:

“Il proprietario fondiario non riceve niente se non mediante il lavoro del coltivatore; egli riceve da lui i suoi mezzi di sussistenza e i mezzi per pagare i lavori degli altri stipendiati… il coltivatore ha bisogno del proprietario fondiario solo in virtù delle convenzioni e delle leggi” (Turgot, fisiocratico)

Da Blanqui (Storia dell’economia politica, 1839), Marx riporta poi questa definizione dell’agricoltura borghese (tanto brillante quanto la sua famosa: il capitalismo fece della terra un articolo di commercio):

“La proprietà fondiaria uscì per la prima volta dallo stato di torpore in cui l’aveva mantenuta così a lungo il sistema feudale. Questo fu un vero risveglio per l’agricoltura… Essa (la terra) passava ora dal regime della manomorta a quello della circolazione”.

Cosa è la manomorta lo chiederemo al manuale. In Italia essa era la sola forma feudale in efficienza, prima della legge che la sterminò. Manomorta sono i possessi immobiliari di chiese, conventi (ordini monastici, non comunità di lavoro diretto come nella dottrina di Benedetto, ma goditori di rendita) ed altri enti pii, che non sono alienabili né trasmissibili, tanto che vi si paga una tassa che sostituisce il gettito che dà al fisco la normale proprietà libera nei trapassi di vendita o successione. Ad esempio in Italia nel 1923-24 mentre i trapassi della terra in circolazione rendevano al fisco statale 500 milioni, la superstite (impropria) manomorta non dette che circa 6 milioni. Altro che feudalesimo da estirpare!

Seguiamo un poco la digressione. Partendo da quelle tasse e dalla media periodicità dei trapassi di proprietà, l’autore calcola che il valore del patrimonio immobiliare italiano fosse nel 1924 di 120 miliardi per la parte agraria privata (totale 200 miliardi). Vogliamo raffrontare questa cifra con quella dei fabbricati, che resterebbe 80 miliardi. Nell’anteguerra avevamo in Italia 30 milioni di stanze abitate; i vani edilizi non pubblici, di ogni destinazione oltre la casa, sono quasi il doppio, ossia 50 milioni; in lire di allora un vano valeva mediamente, tra città e campagna, tremila lire, il che conduce a 150 miliardi. Ciò vorrebbe dire che dovremmo dedurre di più dal totale terreni e fabbricati; ma la vera ragione è che, come il testo avverte, i valori denunziati dai contribuenti sono minori del vero, anche dopo accertamento. Il valore agrario fondiario 1924 si può dunque portare anche a 150 miliardi. Oggi sarebbero circa 8.000 miliardi. La rendita fondiaria di tutte le terre italiane, accentrate o spezzettate, risulta oggi di circa 400 miliardi annui. Il reddito nazionale totale è già ai 10.000 miliardi: la lotta per la spartizione della rendita terriera riguarda solo il 2 e mezzo per cento dell’economia del paese. Ma molto è già spezzettato: quanto sarà la rendita dei baroni, come ci chiedevamo altra volta? Su 45 milioni di italiani abbiamo oltre 8 milioni di proprietari immobiliari si sa bene che la statistica per grandezza di possessi è affare imbrogliato: comunque il fantomatico baronato non incombe sui guai di questo popolo avventurato per più del mezzo per cento. A sentire i vanti de “l’Unità” gli costa di più il partito comunista ufficiale, in quote e sottoscrizioni – quello poi che veramente lo frega.

Bilancio dell’azienda

Prima ancora un pochino di lezioncina:

“La terra coltivata si divide prima in possessi, di cui ognuno, può comprendere una sola o più imprese od aziende, mentre soltanto per rara eccezione può avvenire l’opposto (ma può avvenire: proprietà minori, azienda maggiore). Intendesi per possesso o predio l’assieme di terreni prossimi o non molto discosti tra loro, ad una sola persona fisica o giuridica; e per impresa agraria, podere od unità colturale, quanto di terra coltivata è gestita da un solo imprenditore: proprietario, enfiteuta, affittuario o mezzadro che sia”.

Dunque (solito ribattimento chiodi) la questione della piccola o grande coltura va riferita alla grandezza dell’azienda e non alla grandezza del possesso, a quello che Lenin dice monopolio di azienda e non al monopolio di proprietà della terra. Abolire il secondo può essere un programma borghese, che vorrebbe dire, dopo aver messa la terra in circolazione svincolandola dai diritti di feudale signoria, toglierla dal mercato e attribuirla al demanio dello Stato. Ma abolire i1 monopolio di azienda non si può che per la terra e le fabbriche assieme e quindi è compito rivoluzionario e comunista.

Poiché la definizione del latifondo è: grandissima proprietà, piccole aziende, il suo spezzettamento non colpisce né il monopolio giuridico né quello organizzativo, non è programma socialista né borghese avanzato. E’ una boiata da affaristi e da pescavoti: nulla più.

Ma veniamo dunque alla generale analisi delle partite di bilancio nell’esercizio agrario, che valgono a definire i redditi dei vari elementi sociali e a studiare le forme diverse di combinazione nell’economia presente.

Attivo, o entrata, è quello dato dalla produzione lorda, o prodotto lordo che, venduto ai prezzi di mercato, fornisce la cifra in moneta della rendita lorda o reddito lordo. Fermiamoci un attimo a stabilire che quantitativamente rendita (rente) è lo stesso che reddito (revenu), ma che useremo il primo termine per rifarci alla rendita che dà un fondo, il secondo al reddito che riceve un proprietario, o anche altra definita persona titolare di azienda. Dunque il solo arrivo di soldi nella cassa del podere è questo: prezzo di tutte le derrate prodotte nell’anno, recate al mercato e vendute.

Tutte le uscite devono venire fuori da questa cifra. Occorre ricostituire innanzitutto quanto la materiale produzione ha assorbito o logorato, ossia il capitale di esercizio. L’economia ufficiale lo divide in capitale fisso, ossia fabbricati, macchine, bestiame e simili, e capitale circolante, ossia sementi, concimi, foraggi, piantine, ecc., distinguendoli per il fatto che il primo è a logorio parziale, il secondo a logorio totale, e quindi stanzia tra le uscite aziendali annue una quota (ammortamento) del capitale fisso che ne assicura la conservazione e tutto il capitale circolante. Il termine capitale fisso prende nell’economia marxista ben altro significato, ed è quindi meglio servirsi del termine capitale costante. In questo marxisticamente mettiamo tutto il circolante e la quota di quello definito fisso che si è logorata. Dedotto dunque come uscita il capitale circolante, e la quota di ammortamento, le spese non sono finite. Fabbricato, macchine, ecc., oltre all’ammortamento, che è una messa a riserva per quando occorrerà rinnovarli in toto, chiedono una annua manutenzione. In una saggia amministrazione si accantona anche altra quota per i rischi cui gli impianti vanno soggetti, e quindi una quota di assicurazione.

L’impresa agraria deve inoltre far fronte a varie altre spese se ha un ufficio di amministrazione, pagare tasse (sul profitto, sul reddito detto agrario per i contributi assicurativi del personale; ma non è considerata qui l’imposta fondiaria che colpisce il proprietario, o l’imponibile dominicale). Chiamiamo tutto questo spese generali. Non basta. Se l’imprenditore non ha capitale liquido e lo prende poniamo in banca, per anticipare una annata di tutte queste erogazioni pagherà il relativo interesse sul capitale di esercizio annuo.

Ed ora veniamo a quanto va alle persone che sono in ballo. L’imprenditore fa lavorare i braccianti ed operai agricoli, e in un anno paga una data somma di salari. Per l’economista comune questa è una delle partite di spesa, per i marxisti è invece capitale variabile.

L’imprenditore poi svolge tutta la sua attività in vista di un guadagno e gli resta quindi un profitto dell’impresa. Qui facciamo le scuse al trattatista respingendo la sua affermazione che tale partita sia compenso di lavoro intellettuale di dirigente. Al più essa va smistata in due, portandola se vi sono tecnici agrari fissi alla partita salari e stipendi per tal parte, e per l’altra restando puro profitto di intrapresa.

Se noi stessimo analizzando una industria manifatturiera avremmo finito, ossia avremmo coperto con le uscite tutto il ricavo avuto in principio dalla vendita dei prodotti. Ma trattandosi di terra agraria, e in virtù del codice napoleonico, occorre riconoscere un’entrata al giuridico proprietario, ossia la sua rendita fondiaria netta. Avremmo fatto presto a riassumere se avessimo usato simboli con lettere, ma qualcuno ci avrebbe ulteriormente compatito come (puah!) teorici.

Usiamo dunque la chiacchierata popolare (abile cioè a far fesso il popolo sovrano) cercando però di essere esatti.

Entra: la rendita lorda, ossia il ricavo della vendita della produzione annua lorda al prezzo di mercato.

Esce: primo, l’ammortamento del capitale fisso; secondo, la sua manutenzione; terzo, il capitale circolante annuo; quarto, la Assicurazione contro rischi; quinto, l’importo delle spese generali; sesto, l’interesse sull’annuo anticipo di capitale; settimo: l’importo dei salari, che vanno ai lavoratori agricoli; ottavo: il profitto, che va all’imprenditore.

Resta: (una volta pagato tutto questo) una differenza attiva che è la rendita fondiaria e va al proprietario della terra.

Dramatis personae

Ed ora si ritirano sia i simboli che le cifre, e vengono sulla scena personaggi viventi. Il proprietario fondiario, ove stia a spassarsela in città, riceve la rendita fondiaria netta. Ove gli appartenga parte del capitale tecnico, riceverà anche una quota di interesse. Il proprietario gestore diretto riceve il cumulo di rendita, profitto, interesse. Il capitalista affittuario riceve profitto o anche parte di interesse. L’affittuario lavoratore (colono) riceve il cumulo di profitto e salario. Il proprietario lavoratore (piccolo contadino) riceve il cumulo di rendita fondiaria, Profitto e salario. Il bracciante agrario, giornaliero o ingaggiato ad anno, riceve solo salario. Va subito fatta una osservazione perché il puro profilo legale della spettanza non soffochi la realtà del rapporto economico e di classe.

In linea generale è fuori di dubbio il ricavo della spettante rendita fondiaria, allorché il proprietario ha dato in affitto un fondo all’imprenditore agrario, sia perché ha legale azione per ripeterla, sia perché spesso detiene una cauzione. Non meno assicurato è il profitto capitalistico dell’imprenditore poiché a sua garanzia, come di qualunque industriale, sta il possesso del prodotto attivo da cui tutto deve venir fuori; salvo casi di eccezione e crisi di mercato, il margine sulle spese non viene meno. E’ anche assicurato dalla legge il pagamento del salario al lavoratore da parte del datore di lavoro.

Ma nelle forme miste la cosa cambia. L’affittuario lavoratore è costretto dalla legge a pagare l’affitto al proprietario fondiario, ed ha come garanzia il totale lordo del prodotto, ma il netto ricavo può essere fortemente intaccato nella quota di profitto e magari scendere al di sotto del salario, senza che egli possa rivalersene verso alcuno.

Il proprietario lavoratore dovrebbe cumulare rendita, profitto e salario; ma in effetti se tasse ed interessi di debiti lo soffocano, può accadere, senza che possa avere nessuna azione di rivalsa, che il suo ricavo scenda e che, sparite le quote di rendita e di profitto figuranti nella teorica analisi, egli pure lavori al di sotto del salario medio, sgobbando per lo Stato, la banca, lo strozzino o il professionista consulente.

Fin da questa presentazione di fatto, pacifica tra i vari indirizzi sociologici, è dunque fuori di dubbio che nell’agricoltura, sotto il riflesso, diremmo, per ora puramente contabile, le forme miste sono le più miserabili e le più adatte a richiedere sforzi di lavoro in eccesso sulla remunerazione.

E qui vengono pretesi marxisti a fare campagne per aumentare il numero di piccoli proprietari, coloni, mezzadri lavoratori e impedirne la proletarizzazione. Si spiegherebbe con lo scopo di costoro di evitare di farne dei rivoluzionari, ma per svergognarli non è da trascurare la prova che ne fanno così dei pezzenti assai più sfruttati del lavoratore a salario. Il “popolo” cui fanno appello invece che al proletariato solo, non è una elevazione di questo, ma un suo abbassamento economico, oltre che sociale, intellettuale e politico.

Parentesi lessicale

Poiché siamo un partito e non un’accademia, non è possibile né utile sfuggire ad interferenze tra le varie trattazioni, scritte e verbali, unitarie e periodiche (e la periodicità alle volte è gravemente alterata dalla parvità delle nostre risorse, la nostra miseria materiale non essendo minore di quella del lavoratore “autonomo”, che non sfrutta nessuno e non sta al servizio di nessuno). Avendo parlato di capitale, salario e profitto, termini che ricorrono nell’economia marxista applicata alle aziende capitalistiche in generale e non solo a quelle agrarie, dobbiamo (allo stesso tempo) ripetere ed anticipare cose dette e da dire in Proprietà e capitale, e negli Elementi dell’economia marxista, già usciti per il primo tomo, da uscire per gli altri due.

Ci limitiamo qui (in effetti poi la ricerca sulla rendita fondiaria non fa che condurre alla generale dottrina del plusvalore, come passo passo si vede in Marx) ai soli chiarimenti indispensabili per non equivocare nell’impiego dei termini e per evitare accostamenti e discostamenti errati tra enunciazioni che competono ai vari capitoli della teoria, a cui spesso ci vediamo richiamati, senza potervi trovare rimedio nel rinvio ad una sistematica Pandetta e Digesto del marxismo, che i ricchissimi istituti di varie sponde nemmeno sono in potere di edificare. Di solito, ponendo la rendita immobiliare in parallelo al profitto aziendale e all’interesse finanziario, si considera in parallelo e come capitale “patrimoniale” del titolare, e la terra, e la fabbrica e macchine, e il contante. Sono infatti tutti mezzi dell’attuale forma di produzione e tutti assoggettati per la vigente legge a monopolio titolare. Ma assai più complessa è la questione da quando vi si introducono due fondamentali criteri: processo storico, rapporti di classe.

Nell’azienda agraria concorrono capitale terra, capitale tecnico, capitale denaro. Sembra che all’ingrosso il rapporto dell’interesse al capitale denaro collimi quantitativamente con quello della rendita al valore immobiliare: ma bisogna andare adagio, anche quantitativamente, nel farlo collimare col rapporto del profitto industriale al capitale macchine, spesso assai più alto.

Ricordiamo i termini di Marx e applichiamoli all’azienda dianzi descritta. Per Marx non è capitale il costo di un predio fondiario o di una sala di macchine o una somma di denaro. Egli parte assimilando il capitale ad una massa di merci, di prodotti di lavoro umano. Il valore ricavato da queste merci lo si divide in tre parti. La prima è il capitale costante, ossia ciò che l’intraprenditore, cui le merci appartengono e che le vende, ha speso per materie prime, logorio dell’impianto e altre spese generali. La seconda è il capitale variabile, ossia quanto è stato speso in salari di lavoratori. La terza è il plusvalore, ossia il margine che resta a profitto dell’imprenditore. La somma delle tre è il capitale “di arrivo”, ossia il valore che sta nelle mani dell’imprenditore, ad operazione produttiva finita, quale che sia il tempo della durata di essa.

Ed allora quale era il capitale costante della nostra azienda? Esso (voglia il lettore essere paziente e attento) si ravvisa nella prima, seconda, terza, quarta e quinta partita di anticipazioni (spese, uscite): Ammortamento impianti; loro Manutenzione; Capitale “circolante” ovvero materie prime; Assicurazione; Spese generali. Tutto ciò è costante in quanto dopo le dette spese al principio del nuovo ciclo produttivo (legato solo in agraria all’anno solare) tutto è ricostituito in pari come era all’inizio. Quale il capitale variabile? La sola settima partita: Salari (e se del caso stipendi). Quale il plusvalore? La somma di tre partite: sesta: Interessi; ottava: Profitto di impresa; ed infine la Rendita fondiaria netta.

Quale la somma dei tre termini: capitale costante, variabile e plusvalore, ossia capitale finale pronto per nuovo impiego? E’ chiaro: tutto il valore della produzione in derrate, che in economia rurale è la rendita fondiaria lorda. Per essi è una rendita lorda. per noi è capitale. Quindi il capitale scomposto da Marx è cosa ben diversa dal valore del patrimonio terra e del capitale impianti (fisso).

Nel caso della normale azienda industriale noi chiamiamo capitale in un dato ciclo la somma dei prodotti, che la ragioneria dell’azienda chiama il fatturato, ossia la sua entrata lorda, il suo attivo di gestione. Non chiamiamo capitale il valore di stima (di inventario) delle macchine della fabbrica e delle scorte e nemmeno la differenza tra questo e l’anticipo degli azionisti e questo medesimo capitale azionario, nominale o reale che lo si calcoli, come nei bilanci prescritti dalla legge. Ben vero il valore venale dell’azienda non dipende da una somma di valori di stima e di inventario, ma dalla sua capacità di prodotto lordo e di margine di utile netto su tale prodotto e può quindi essere enormemente superiore, anche alla somma dei diritti degli azionisti, ove ci sono.

Seguendo ora tutto questo verremmo alle sostanziali distinzioni, trattate fra l’altro nel Dialogato con Stalin, fra tassi o saggi di rendita, interesse, profitto e saggio del plusvalore. Il plusvalore è la somma di quelle tre sottrazioni, ma siccome essi lo mettono in rapporto al valore di impianti, noi al vivo valore di trasformazione, la legge di discesa di quei saggi non toglie che sia assolutamente e relativamente sempre più giganteggiante il plusvalore.

Qui basti dire, per passare un poco ai numeri, che un fondo di 1 milione di valore venale può avere una rendita lorda intorno al 10 per cento e netta intorno al 5, ossia 100 mila e 50 mila. Se delle 50 mila di annua spesa 20 mila sono salari, il saggio del plusvalore è il 250 per cento. In una industria non è difficile che con le stesse cifre di entrata e di uscita, ossia con 100 mila lire di fatturato annuo, il valore degli impianti sia solo 500 mila e allora l’economista corrente troverà il profitto del 10 per cento, noi le stesso plusvalore prima detto per il fondo.

Interesse e rendita

Rimandando dunque ad ulteriori esposizioni il problema del profitto aziendale anche in rapporto alle aziende azionarie, parastatali e statali, ripieghiamoci al tempo in cui gli economisti del capitalismo avanzante non erano colpiti da questo aspetto del plusvalore, ma da quelli storici della rendita fondiaria e dell’interesse che allora si diceva apertamente usurario.

Questa è la via che Marx imbocca per arrivare alla comprensione del capitalismo. Se con lui ci si avvia nella giusta direzione, è facile arrivare alla fine del lungo cammino: il capitale si contenterà di minore saggio di profitto, tollererà più alto tenore di vita del lavoratore, ma ugualmente sarà provata, non tanto una moltiplicata sottrazione di plusvalore, che sarebbe risultato platonico, ma sarà provato l’incombere della catastrofe rivoluzionaria.

Ai primi ricercatori sembra del tutto comprensibile che la proprietà della terra comporti una rendita, dato che naturalmente la terra arreca frutti; occorre maggiore sforzo per capire che una somma di denaro prestata arrechi un interesse. Sono ancora ben lontani dal capire che nei due casi la spiegazione sarà trovata solo quando si stabilirà l’origine dei valori nel lavoro degli uomini, che né la terra né il denaro sono come i cioccolatini purganti (voi dormite e Kinglax lavora) e in seguito neppure le macchine, ma che bisogna trovare nel conglomerato sociale i disgraziati che stanno svegli mentre voi dormite.

Cose davvero suggestive si trovano in Petty, ove il lettore sia un Carlo Marx. Egli, scrivendo nel 1679, per primo trova che il valore di una mercanzia, che egli chiama il suo prezzo naturale, si determina dalla quantità di lavoro medio che vi è contenuta. Presto si trova davanti ai problemi, che si concentrano in quello del plusvalore: ossia l’entrata – il reddito – per chi non rende lavoro.

“Ma prima di parlare troppo delle rendite, dobbiamo cercare di chiarirne la natura misteriosa, tanto per ciò che riguarda il denaro, la cui rendita noi chiamiamo usura, quanto per ciò che riguarda la rendita dei terreni e degli edifici”.

Petty ha fatto, rispetto ai fisiocratici francesi per cui la rendita fondiaria è la sola sorgente di plusvalore (in quanto la produzione manifatturiera secondo loro non aumenta la ricchezza ma la trasforma con pareggio di valori facendo vivere gli “sterili” industriali ed operai) il passo che vede una seconda forma di plusvalore nell’interesse. Egli suppone che un uomo su una data terra faccia da sé tutti i lavori, zappi, semini, raccolga, trebbi, ecc., conservi il seme per l’altra annata, deduca dalla raccolta quanto gli basta a campare: il grano che gli resta costituisce la vera rendita fondiaria naturale. 0 meglio sarà questa la media del sovraprodotto così ottenuto in un periodo di sette anni.

Questo vale, Marx illustra, definire la rendita come un sopralavoro del produttore oltre il salario e la ricostituzione del capitale, invece di (e dunque mentre noi marxisti la definiamo come): una semplice eccedenza del lavoro impiegato sul lavoro necessario. Sintetico, ma già enunciato. Un eccesso del grano prodotto su quella minore quantità che il contadino unico avrebbe dovuto produrre solo per mangiarla. Parole di Petty, ma musica di don Carlo.

Petty poi vuole esprimere quella rendita in denaro inglese, ossia compulsare il conto corrente di Robinson Crusoè sulla Banca d’Inghilterra. In ciò è sagace. Quelle quantità di moneta, poniamo di argento, che un minatore potrebbe estrarre nello stesso tempo, riducendo il suo consumo al minimo indispensabile, da una miniera del metallo, dedotto quello che avrebbe pagato per vivere: ossia la massima economia del lavoratore salariato che si alimenti nel più frugale dei modi. Questo in linguaggio di Marx significa porre la rendita eguale a tutto il plusvalore, profitto compreso. Con un nuovo “tratto di genio” Petty vuole, dopo aver trovato il frutto, ossia aver calcolata in denaro la rendita annua, trovare il valore commerciale della terra (mal tradotto nell’edizione francese: du pays).

Egli dice infatti: “il valore naturale della proprietà libera della terra”. Ebbene ecco il procedimento veramente originale: si domanda quante rendite annue può valere il terreno, quanto cioè il compratore è disposto ad anticipare in moneta corrente. Egli dice che ciò corrisponde al tempo di vita su cui possono contare di sopravvivere un uomo di 50 anni, uno di 28 e un bambino di 7, ossia nonno, padre e figlio, non essendo il caso di pensare a una più estesa, e non contemporanea, discendenza. Queste tre vite sono valutate in Inghilterra ognuna a 21 anni (egli ci ha dato le differenze di 22 e 23 tra le generazioni), quindi la terra vale 21 annate di rendita.

Marx osserva che ciò vale fare la “capitalizzazione” degli economisti comuni: 21 o 20 rendite significano il tasso del 5 per cento, ossia il compratore ha calcolato che la terra gli renderà quanto il suo denaro messo ad interesse del 5 per cento annuo. Ma Petty vuole partire dalla rendita come forma madre del plusvalore e se avesse così ragionato avrebbe dedotto la rendita come derivato della forma interesse.

La deduzione di Petty è tanto più interessante in quanto potrebbe servire a stabilire un nesso generico tra la prolungata vita delle generazioni nel mondo moderno e la discesa del tasso di profitto. Noi calcoliamo oggi non 21 ma 30 anni per una generazione e Stalin, che ci teneva tanto a Voronoff (sia pure con magro esito), ne avrebbe pretesi almeno 35 per il “paese del socialismo”. Perché allora negare la discesa del tasso, in tre secoli, dal 5 al 3 per cento?

Ma Petty non risponde alla obiezione che in altra forma fa Marx, ossia che, dopo mangiate le 21 rendite, il valore venale della terra di norma sarà ancora lì per altri ventun’anni o un’altra vendita alla stessa cifra. E ciò il diritto lo esprime con la ereditarietà di essa senza limiti di generazioni. Per confutare Petty occorre una formulette di calcolo integrale. Ed allora, ad evitare scandalo, racconteremo una storiella.

La servetta e il calcolo integrale

Quando ero ragazzo con tutti dieci alla quarta elementare e dominavo da maestro le quattro operazioni dell’aritmetica, la serva di casa mi poneva di continuo in imbarazzo. Io sono analfabeta, diceva, voi che siete istruito fatemi il conto di quanto devo avere risparmiato per poter cessare di servire e assicurarmi una lira al giorno (prevedo le insinuazioni sull’età dello scrivente: fino al 1916 si campava con una lira al giorno; tre o quattrocento di oggi: avrà almeno cinquant’anni). Dall’alto della mia cultura la maltrattavo: bestia! perché io faccia un simile calcolo occorre che tu mi dica in che anno morirai. Ella mi guardava con compatimento e con sforzi enormi cercava di spiegarmi che quel dato non occorreva (faceva evidentemente conto su più dei 21 striminziti anni di Petty). Se da simile lunga lotta uscii sconfitto è perché la serva applicava, ed io no, il calcolo integrale. Il dato che occorreva non era la vita della donna, ma il tasso di interesse: il suo gruzzolo lungi dal non bastarle se avesse vissuto quanto Matusalemme, le è certamente sopravvissuto (svalutazioni a parte!).

Una somma di 1 lira dopo un anno, se messa a frutto (non ne vorrete sapere meno di una povera analfabeta del… stavo per dire secolo scorso), diventa 1 lira e 1 soldo. Ma se io voglio riscuotere una somma di 1 lira tra un anno, basterà che oggi accantoni (in banca) 95 (circa) centesimi.

Quindi 1 lira di oggi è 1 lira; una del prossimo anno 0,95; una tra due anni (circa!) 0,90; una fra tre anni un poco più di 0,85. Non crediate che una tra dieci anni sia mezza lira, è invece “a valor d’oggi” 61 centesimi e quella tra venti anni non è zero ma 38 centesimi. A questo ci arrivai quando oltre alle quattro operazioni imparai le potenze; se volete credetemi sulla parola.

Ora il problema è questo: quanto devo “stanziare” per pareggiare la somma dei valori attuali di queste rendite future tutte uguali, ma distanti da oggi sempre più anni? Quanti anni? Tutti gli anni fino alla fine… del capitalismo. Qui dal calcolo infinitesimale potremmo passare ai concetti einsteiniani di relatività, che danno una misura alla infinità dello spazio e del tempo: ma stiamocene agli economisti borghesi per cui la rendita è “perpetua” e gli anni da mettere nel conto infiniti. Ed allora faccio un’addizione: 1 lira, più 0,95, più, più, più… 0,61 … più 0,38, più, più, più… so che la lunghezza dei “fili” incute rispetto, ma i più non ci starebbero nel giornale. Gli addendi scendono, scendono, ma non finiscono mai. La parola integrazione col suo anfigorico suono (che vorrà dire anfigorico? ecco l’occasione che lo ha spiegato) non significa che addizione. Non ve la sto a fare a pie’ di colonna e vi corroboro con altra storiella. Al confino a Ponza un valente e tuttora efficiente compagno negava che una somma di termini in numero infinito desse un totale finito e invano mobilitavansi per provarglielo il filosofo Zenone, Achille e la sua gara con la tartaruga: per lui Achille non raggiungeva mai la tartaruga.

Ebbene, quella somma è proprio venti lire. Integrando l’espressione del valore di oggi di infinite rendite future costanti al tasso del 5 per cento, si ha un capitale di venti volte la rendita. Dopo avere trovato il bandolo, la regoletta diviene facile e nota ad ogni strozzinetto. Il capitale si trova dividendo la rendita per il saggio di interesse: 1 diviso 5 centesimi uguale 20. Scabroso forse? Venti soldi in una lira. La servetta per godere di 365 lire all’anno doveva avere accumulato 7300 lire (o avere scavato nella miniera, a 3,60 al grammo, una pepita di due chilogrammi). Dopo tutto, mica fesso Petty. E meno noioso.

Proletarian Dictatorship and Class Party Pt. 1

Table of Contents

I

Every class struggle is a political struggle (Marx).

A struggle which limits itself to obtaining a new distribution of economic gains is not yet a political struggle because it is not directed against the social structure of the production relations.

The disruption of the relations of production peculiar to a particular social epoch and the overthrow of the rule of a certain social class is the result of a long and often fluctuating political struggle. The key to this struggle is the question of the State: the problem of “who has power?” (Lenin).

The struggle of the modern proletariat manifests and extends itself as a political struggle with the formation and the action of the class party. The specific features of this party are to be found in the following thesis: the complete development of the industrial capitalist system and of bourgeois power which issued from the liberal and democratic revolutions, not only does not historically exclude but prepares and sharpens more and more the conflict of class interests and its development into civil war, into armed struggle.

II

The communist party, as defined by this historical foresight and by this program, accomplishes the following tasks as long as the bourgeoisie maintains power:

a) it elaborates and propagates the theory of social development, of the economic laws which characterize the present social system of production relations, of class conflicts which arise from it, of the State and of the revolution;

b) it assures the unity and historical persistence of the proletarian organisation. Unity does not mean the material grouping of the working class and semi-working class strata which, due to the very fact of the dominance of the exploiting class, are under the influence of discordant political leaderships and methods of action. It means instead the close international linking-up of the vanguard elements who are fully orientated on the integral revolutionary line. Persistence means the continuous claim of the unbroken dialectical line connects the positions of critique and struggle adopted by the movement during the time course of a series of changing conditions;

c) it prepares well in advance for the class mobilisation and offensive by appropriately employing every possible means of propaganda, agitation and action, in all particular struggles triggered off by immediate interests. This action culminates in the organisation of the illegal and insurrectional apparatus for the conquest of power.

When general conditions and the degree of organisational, political and tactical solidity of the class party reach a point where the general struggle for power is unleashed, the party which has led the revolutionary class to victory through the social war, leads it likewise in the fundamental task of breaking and demolishing all the military and administrative organs which compose the capitalist State. This demolition also strikes at the network of organs, whatever they may be, which allege to represent the various opinions or corporative interests through the intermediation of bodies of delegates. The bourgeois class State must be destroyed whether it presents itself as the mendacious interclassist expression of the majority of citizens or as the more or less open dictatorship wielded by a government apparatus which pretends to fulfil a national, racial or social-popular mission; if this does not take place, the revolution will be crushed.

III

In the historical stage which follows the dispersal of the apparatus of capitalist domination, the task of the political party of the working class is as vital as ever because the class struggle – though dialectically inverted – continues.

Communist theory in regard to the State and the revolution is characterized above all by the fact that it excludes all possibility of adapting the legislative and executive mechanism of the bourgeois State to the socialist transformation of the economy (the social-democratic position). But it equally excludes the possibility of achieving by means of a brief violent crisis the destruction of the State and a transformation of the traditional economic relationships which the State defended up to the last moment (the anarchist position). It also denies that the constitution of a new productive organization can be left to the spontaneous and scattered activity of groups of producers shop by shop or trade by trade (the tradeunionist position).

Any social class whose power has been overthrown, even if by means of terror, survives for a long time within the texture of the social organism. Far from abandoning its hopes of revenge, it seeks to politically reorganise itself and to re-establish its domination either in a violent or disguised way. It has turned from a ruling class into a defeated and dominated one, but it has not instantly disappeared.

The proletariat – which in its turn will disappear as a class alongside all other classes with the realization of communism – organises itself as a ruling class (Communist Manifesto) in the first stage of the post-capitalist epoch. After the destruction of the old State it represents the new proletarian State, i.e., the dictatorship of the proletariat.

The precondition for going beyond the capitalist system is the overthrow of bourgeois power and the destruction of its State. The condition for bringing about such a deep and radical social transformation is the creation of a new proletarian State apparatus, capable of using force and coercion just as all other historical States.

The presence of such an apparatus does not characterise communist society, it instead characterises the stage of its construction. Once this construction is secured, classes and class rule will no longer exist. But the essential organ of class rule is the State – and the State can be nothing else. Therefore communists do not advocate the proletarian State as a mystical creed, an absolute or an ideal but as a dialectical tool, a class weapon that will slowly wither away (Engels) through the very realisation of its functions; this will take place gradually, through a long process, as the social organisation is transformed from a system of coercion of men (as it has always been since the dawn of history) into a comprehensive, scientifically built network for the management of things and natural forces.

La voce del ferroviere

Dalla viva voce di un operaio ferroviere ho sentito, giorni fa, un discorsetto che suonava così: «Ieri per le elezioni politiche, oggi per Trieste, il fatto è che tutti dimenticano che è da un anno e mezzo che chiedemmo l’aumento delle paghe e ancora non si vede niente all’orizzonte». Parole semplici, come si vede, ma molto sagge. Chi ha parlato così è un operaio che, come dice egli stesso, non s’interessa tanto di politica, quanto della situazione economica familiare sempre più difficile. Dunque le sue parole hanno carattere istintivo, ma di quell’istinto sano dell’operaio che suda e che non vede mai, nemmeno un po’, migliorare le sue condizioni. Esse esprimono il fatto che una certa politica, quella specie di politica che ogni giorno si fa da parte non solo dei governanti, ma dei partiti cosiddetti di sinistra, fa dimenticare le questioni di stomaco e mettere da parte le lotte impegnate e da impegnare per le rivendicazioni economiche.

Infatti che esito hanno avuto i tre scioperi che noi ferrovieri facemmo dall’agosto del ’52 all’aprile del ’53? Nessuno. E perché? Perché l’amministrazione ferroviaria ha tenuto duro? No; ma perché:

  1. I sindacati – S.F.I. in testa – si sono preoccupati di far precedere le richieste di aumento dei salari da quelle «costruttive», di carattere puramente tecnico-amministrativo (tali sono da considerare infatti le richieste di nuove tabelle di classificazione e di conglobamento di alcune voci dello stipendio). È chiaro che l’amministrazione, prima di accettare simili proposte che non ha mai detto di rifiutare, ha bisogno di «valutarle bene». È quello che sta facendo prendendosi tutto il tempo possibile. Essa sa che un provvedimento organizzativo dell’azienda si risolve, presto o tardi, in un vantaggio economico dell’azienda stessa e perciò, forse, non si mostrerà poi tanto ingrata da lesinare qualche soldo a noi ferrovieri che, grazie ai nostri sindacati, l’abbiamo spinta a fare un buon passo avanti. È così che una lotta economica dal basso, svolta con mezzi primitivi, sì, ma persuasivi, si trasferisce nelle alte sfere degli uffici dei sindacati e della Direzione Generale dove s’impantana in discussioni senza fine.
  2. Le elezioni politiche hanno sconvolto i cervelli degli operai che sono caduti nella trappola del ragionamento banale e truffaldino che l’elezione al parlamento dei loro dirigenti politici e sindacali avrebbe agevolato e accelerato la soluzione delle loro vertenze economiche. Dopo tanto tempo dobbiamo amaramente constatare che l’aumentato numero degli eletti di «sinistra», mentre è costato anche denaro e lavoro agli operai, che hanno loro dato e fatto dare il voto, non ha fatto fare un solo passo avanti alle rivendicazioni dei ferrovieri e delle altre categorie.
  3. La «questione di Trieste» sta ora infiammando il cuore degli operai italiani e jugoslavi di un patriottismo rancido e sorpassato, raggiungendo così il miracoloso effetto di far dimenticare, di fronte a un fatto così vitale (!), il loro malessere economico.

Di questo passo, cioè continuando a farsi incantare dalle sirene della «politique d’abord» (che è in realtà una politica anti-operaia) non l’aumento delle paghe otterranno gli operai, ma solo quello del costo della vita. Proprio in questi giorni, infatti, la nostra cara amministrazione ferroviaria aumenterà le sue tariffe: e cioè della bellezza del 25 per cento per i viaggiatori, del 5-18 per cento per le merci «povere», e del 5-12 per cento per le merci «ricche». È facile capire che questi aumenti si riverseranno, a breve scadenza, su tutti i generi di consumo dell’operaio specialmente che sarà così costretto a stringere ancor più la cinghia.

Chiusura alla Magona

La «vittoria» proclamata dalle organizzazioni sindacali nella vertenza della Magona di Piombino – le cui disastrose vicende abbiamo seguito su queste colonne – non poteva non essere completata dall’esito delle elezioni per la Commissione Interna.

Ridotto e accuratamente selezionato il personale (prima vittoria), ripreso il lavoro col materiale mantenuto in esercizio durante l’occupazione (seconda vittoria), le suddette elezioni hanno dato il risultato facilmente prevedibile: 4 membri della C.I.S.L. – U.I.L., 1 della C.G.I.L. e 1 della C.I.S.N.A.L. Come «vittoria» non c’è male, per gli illusi operai della Piombino rossa.