Partito Comunista Internazionale

Il Partito Comunista 379

L’opposizione di facciata della Fiom spalleggia il corporativismo della Cgil Pt.3

La Cgil dopo il Jobs Act

Dopo lo sciopero generale del 12 dicembre contro il Jobs Act già approvato da nove giorni, la Cgil riunì il suo Direttivo nazionale confederale il 17 dello stesso mese. Nella sua relazione la segretaria generale ebbe la faccia tosta di affermare che lo sciopero, insieme alla manifestazione nazionale del 25 ottobre a Roma, erano stati «solo l’inizio di una stagione di mobilitazione», che quindi toccava al suo sindacato «la responsabilità di decidere oggi come continuare» e che per questo serviva «fantasia per andare avanti»! Un esempio di questa fantasia fu la proposta del cosiddetto “sciopero al contrario”, cioè andare a lavorare… gratis! Non smentendosi anche Landini votò a favore del documento finale del Direttivo e rilanciò al Comitato centrale Fiom di due giorni dopo questa nuova “forma di lotta”. Queste chiacchiere fantasiose servivano solo a evitare la chiarezza nei propositi, nell’indirizzo d’azione, a camuffare l’insabbiamento di una mobilitazione mai realmente iniziata.

Fu il Direttivo Nazionale successivo, il 18 febbraio, a definire, nel suo documento conclusivo – anche questo votato dal segretario generale della Fiom – come la Cgil sarebbe dovuta “andare avanti”:
     1) La difesa del contratto nazionale era indicata come il «primo obiettivo della nostra organizzazione»; da quanto fin qui abbiamo scritto ben si capisce come questa asserzione sia una sfacciata presa in giro dei lavoratori; infatti il documento dichiara che questo obiettivo doveva essere perseguito tenendo a riferimento la «struttura contrattuale… definita nel Testo Unico sulla Rappresentanza», firmato un anno prima, cioè quell’accordo che sanciva lo svuotamento del contratto nazionale aprendo ampiamente le maglie alle deroghe;
     2) Nella contrattazione nazionale di categoria andava respinta qualsiasi ipotesi di «restituzione del salario» – bontà loro! – e andava considerata impraticabile, al momento, «la ridefinizione di un modello contrattuale»;
     3) Il contrasto al Jobs Act doveva passare dal piano della mobilitazione a quello della contrattazione, di cui doveva persino divenire «baricentro fondamentale», e a quello della proposta, con l’elaborazione di un progetto di nuovo “Statuto delle Lavoratrici e dei Lavoratori”, da tradursi poi in una proposta di legge;
     4) Infine, il Direttivo prospettava l’eventuale ricorso allo strumento del referendum abrogativo per parti del Jobs Act.

Vedremo come tutti e questi punti resteranno disattesi, tranne l’ultimo, quello più labile e privo di concretezza.

Il contrasto del Jobs Act a livello contrattuale era il diversivo col quale la Cgil cercava di dissimulare l’abbandono anche della pur farsesca lotta contro di esso. Uno stratagemma spesso usato in passato – anche dalla Fiom in occasione del rinnovo contrattuale dei metalmeccanici – col quale, passata la sconfitta generale della classe, si prometteva una guerriglia categoria per categoria e fabbrica per fabbrica. Una proverbiale fregatura giacché la forza dei lavoratori è in funzione della loro unità d’azione: non una unità astratta ma nella lotta, nello sciopero. Lotta che invece, condotta divisa per azienda e per categoria, non può che svolgersi in condizioni più sfavorevoli di quella in cui è mobilitata unitariamente tutta la classe operaia.

Inoltre, come sarà confermato nel giro di due mesi, l’atteggiamento delle Federazioni di categoria e dei gruppi di fabbrica della Cgil è in linea generale ancor più cedevole di quella dello Confederazione stessa che, non certo per virtù ma per la sua posizione di primo piano, deve muovere con maggiore cautela ogni passo verso il sempre più esplicito collaborazionismo di classe.

Insomma, era stata una farsa la mobilitazione della Cgil prima dell’approvazione del Jobs Act, ancora più farsa si sarebbe rivelata dopo.

Trappole democratiche

Il ricorso al metodo del referendum popolare e a quello legislativo è fumo negli occhi. Ciò che la Cgil non ha voluto difendere sul piano della lotta di classe, non lo conquisterà certo con questi mezzi, pieni di inghippi e trappole, in cui la forza operaia è sostituita dalla conta delle opinioni dei cittadini, dei membri di tutte le classi, o dai voti dei parlamentari. Quando sono chiamati a votare su questioni che riguardano i lavoratori i membri di tutte le classi e strati sociali, che campano tanto meglio quanto più è sfruttata la classe operaia, la vittoria padronale è garantita. Esempio tipico è quello del referendum del 1984 sulla scala mobile, che segnò l’inizio della sua abolizione, completata con l’accordo fra Cgil, Cisl e Uil nel 1992. Per la borghesia la vittoria più importante è l’aver allontanato i lavoratori, col ricorso a questi mezzi offerti dalla democrazia, dalla loro insostituibile arma difensiva, lo sciopero.

Una eventuale proposta di legge popolare deve naturalmente essere approvata e non si capisce come lo stesso parlamento che – al di sopra dei governi e delle legislature – esegue gli ordini della borghesia nazionale e internazionale producendo le più nefaste leggi antioperaie, dovrebbe licenziare una proposta di legge se non dopo averla cambiata rendendola favorevole agli interessi padronali. Lo stesso per i referendum abrogativi: cancellano gli articoli di una legge, ma il vuoto che lasciano deve poi essere riempito dall’opera legislativa dei governi e dei parlamenti borghesi.

Quindi, quand’anche si raccolga il numero sufficiente di firme, impiegando a questo scopo energie che dovrebbero essere utilizzate per organizzare la lotta di classe; quand’anche la borghese corte costituzionale e borghese la cassazione approvino i quesiti referendari; quand’anche si raggiunga il cosiddetto quorum; quand’anche infine si riesca a vincere l’influenza che i potentissimi mezzi d’informazione borghesi hanno sulla rimbecillitissima opinione pubblica, orientandola a votare contro l’interesse della classe dominante, nemmeno nel caso in cui si verifichi questa remota ipotesi è possibile il raggiungimento dell’obiettivo favorevole alla classe lavoratrice.

Nella palude di queste logoranti procedure si vorrebbe affondare la lotta di classe, lo sciopero, tanto più forte quanto più esteso e duraturo, il solo metodo col quale i lavoratori possono davvero difendere le proprie condizioni di vita.

Il referendum è già uno strumento dannoso alla lotta di classe quando riguarda solo i lavoratori, di una singola azienda o categoria: il voto di un operaio che sacrifica il suo tempo e le sue energie per l’organizzazione sindacale, rischiando la rappresaglia padronale, e che ha esperienza di lotte precedenti, vale quanto quello di un lavoratore inesperto, timoroso, individualista, o anche crumiro. Quando la rabbia cresce ma non è al punto da far esplodere lo sciopero, far votare individualmente i lavoratori in un referendum è il modo migliore per prender tempo, smorzare la determinazione e, spesso, per far prevalere gli indecisi sui più combattivi. Lo sciopero unisce le energie degli operai; il referendum le separa.

Questo indirizzo pratico del nostro partito nel campo sindacale, ossia la denuncia e il rigetto degli strumenti democratici quali il referendum in quanto nocivi alla lotta di classe, non è affatto condiviso dalle correnti più a sinistra nella Cgil né dalla maggioranza del sindacalismo di base, che invece si illudono su una loro complementarità con lo strumento della lotta vera, lo sciopero. Eppure dovrebbe far riflettere il fatto che essi sono proposti dai vertici dei sindacati di regime, che in alcuni casi ne fanno una loro bandiera, come la Fiom che rivendica l’obbligo del referendum per approvare gli accordi aziendali e nazionali.

Un’altra clamorosa ricaduta di buona parte del sindacalismo di base nel campo dell’opportunismo sindacale, anche qui finendo col condividere una pozione propria dei sindacati di regime giustamente tanto avversati, è quella della richiesta di una legge per la rappresentanza sindacale, che accomuna la Cgil, la Fiom e l’Usb.

I rinnovi contrattuali dopo il Jobs Act

  L’opposizione della Cgil al Jobs Act sul piano della contrattazione ha palesato subito la sua insussistenza ed ipocrisia. Nel corso del 2015 sono stati rinnovati i contratti nazionali di varie categorie: commercio, bancari, chimico-farmaceutici, gomma-plastica e autoferrotranvieri. Nel 2016, ad oggi, quello alimentaristi, igiene ambientale, lavanderie industriali, industria ottica, industria del vetro e lampade. In questi giorni si svolgerà il referendum sulla ipotesi di rinnovo contrattuale per le aziende dell’igiene urbana. Sono in corso le trattative per i contratti della logistica, di tessili, edili, sanità privata, ferrovieri e metalmeccanici, nonché quello del pubblico impiego.

Tutti questi rinnovi contrattuali hanno introdotto pesanti peggioramenti: aumenti salariali infimi che non fermano la perdita di potere d’acquisto dei salari, in atto dall’abolizione definitiva della scala mobile nel 1992; aumenti della flessibilità dell’orario di lavoro e della sua durata; aggravamento della regolamentazione antisciopero; inasprimento delle sanzioni disciplinari; piena applicazione del Testo Unico sulla Rappresentanza; nessuna deroga al Jobs Act finalizzata a delimitarne l’applicazione; nuovi passi verso la liquidazione del contratto nazionale.

Sul piano salariale, in particolare: quote crescenti del salario che erano fisse sono legate a parametri di produttività ed efficienza e demandate alla contrattazione aziendale; è stata in genere rimandata di un anno, al 2017, l’assegnazione della prima rata dell’aumento stabilito dal nuovo contratto; è stata allungata la vigenza di alcuni contratti; i ritardi nei rinnovi dei contratti sono stati rimborsati con cifre irrisorie o non lo sono stati affatto; una quota degli aumenti è stata devoluta per sostenere fondi previdenziali e assistenziali integrativi e Enti Bilaterali.

Sindacati-azienda

Quest’ultimo aspetto non è di secondaria importanza. Questi enti e fondi, gestiti unitamente da aziende e sindacati, a livello aziendale o nazionale, offrono ai lavoratori prestazioni di vario tipo: pensionistica, sanitaria, assistenziale, formazione professionale, per arrivare, nelle intenzioni dei loro sostenitori e promotori, fino alla gestione degli ammortizzatori sociali. Il loro sviluppo si inquadra nel processo di smantellamento del cosiddetto Stato sociale e della sua sostituzione con un sistema assistenziale e previdenziale privato e aziendale. I sindacalisti di Cgil, Cisl e Uil lo chiamano “welfare contrattuale” e si vantano di dargli pieno corso. In questo modo risparmia lo Stato borghese e guadagnano i gestori di questi enti, appunto aziende e sindacati.

La Cgil, che nei proclami e nei comizi si dice a difesa dello Stato sociale, favorisce il suo smantellamento e ci guadagna anche sopra. Così come per il contratto nazionale. Inquadrata politicamente nel regime del Capitale fin dalla sua rinascita “dall’alto” nel 1944 per il tramite dei partiti operai borghesi che la controllavano, il PCI e il PSI; sconfitto al suo interno il sindacalismo classista e chiusa dalla seconda metà degli anni settanta ogni possibilità di una sua riconquista, la Cgil compie le ultime tappe di questo processo legandosi alle aziende e al padronato intero, al Capitale insomma, anche sul piano finanziario, dato che gli interessi derivanti dalle attività di gestione di questi fondi ed enti vengono a rappresentare nei loro bilanci una voce importante quanto irrinunciabile.

La politica di conciliazione fra le classi in nome dell’interesse dell’economia nazionale – quella che il PCI, passato in mano al centrismo di Stalin e Togliatti, aveva sostituito alla lotta di classe internazionale del proletariato – necessariamente generò l’aziendalismo, cioè la subordinazione degli interessi operai a quelli dell’azienda, pratica della Cgil in tutto il secondo dopoguerra. Questa ha infine condotto all’aziendalizzazione del sindacato. Per altro un fenomeno che non è affatto nuovo, sul piano internazionale, essendosi delineato in modo netto già dai primi anni del secondo dopoguerra negli Stati Uniti.

Un esempio di questa progressiva dipendenza dei sindacati di regime dal capitalismo, non solo politica ma anche finanziaria, è dato dal bilancio preventivo 2016 della Filcams Cgil, approvato dal Comitato Direttivo del 9 febbraio scorso e non votato dalla minoranza de “Il sindacato è un’altra cosa”, che ha denunciato in un comunicato le ragioni. La quota nel totale degli introiti delle quote degli iscritti è prevista al 36%; e si pensi che la Filcams è la federazione della Cgil con il maggior numero di iscritti nel settore privato. Il restante delle entrate, il 64%, arriverà dai contributi della previdenza e assistenza integrativa e dagli enti bilaterali. Inoltre dalle “quote di adesione contrattuale”, ossia un contributo che ogni lavoratore, iscritto o non iscritto, versa ai sindacati firmatari del contratto nazionale, a meno che esplicitamente non dichiari di non volerlo fare, cosa assai rara perché la maggioranza nemmeno sa dell’esistenza di questo contributo. Un sistema truffaldino col quale i sindacati si garantiscono una ulteriore fonte di finanziamento. E una ragione in più per costoro per firmare i rinnovi contrattuali, a prescindere dai peggioramenti che comportino per i lavoratori.

Qui riportiamo i punti salienti dei principali rinnovi contrattuali firmati da gennaio 2015 nei quali nessuno dei punti in materia contrattuale stabiliti dal Direttivo Nazionale di febbraio – difesa del contratto nazionale, nessuna ridefinizione dell’assetto contrattuale generale, lotta al Jobs Act – è stato rispettato.

Terziario

Nel commercio si è verificata una situazione simile a quella del settore metalmeccanico. Sul fronte sindacale, il contratto nazionale del 2011 fu firmato solo dalle federazioni della Cisl e della Uil. La Filcams Cgil non lo siglò adducendo a motivo peggioramenti quali giorni di malattia non retribuiti, discriminazioni per i nuovi assunti, obbligatorietà del lavoro domenicale.

Sul fronte padronale, la principale associazione del settore, la Confcommercio – come accaduto a Confindustria con FIAT nel 2011 – ha subìto a inizio 2014 l’uscita di colossi aziendali quali Carrefour, Auchan e Ikea, che sono confluiti in un’altra organizzazione padronale, Federdistribuizione. Quest’ultima, ad oggi, a 32 mesi dall’inizio delle trattative, non ha ancora siglato coi sindacati confederali il primo contratto nazionale per i lavoratori delle aziende ad essa associate, circa 220 mila.

Il 30 marzo 2015 la Filcams Cgil ha firmato, insieme alle federazioni di Cisl e Uil, il rinnovo del contratto nazionale con Confcommercio, che riguarda ora circa mezzo milione di lavoratori; con esso ha accettato:
     – implicitamente il precedente contratto del 2011 che non aveva firmato;
     – la possibilità di “sottoinquadrare” una nuovo assunto di ben due livelli per sei mesi, di un livello per ulteriori sei mesi ed estendibile per ulteriori 24 mesi se il contratto viene trasformato a tempo indeterminato, andando così oltre a quanto previsto dallo stesso Jobs Act in materia di demansionamento;
     – l’innalzamento delle settimane in cui poter lavorare 44 ore, divenute 16;
     – l’equiparazione del lavoro domenicale, obbligatorio, a quello feriale;
     – 85 euro lordi medi di aumento in tre anni (rispetto ai 130 richiesti dai sindacati);
     – nessun rimborso per l’anno e mezzo di ritardo nel rinnovo (rispetto ai 255 medi richiesti);
     – rafforzamento degli enti bilaterali che «possono essere costituiti e gestiti esclusivamente dalle rappresentanze delle Organizzazioni nazionali che sottoscrivono il CCNL».

Bancari

Il giorno dopo la firma del contratto del commercio, il primo aprile, è arrivata quella del contratto dei bancari – fra l’associazione padronale ABI, la Fisac Cgil, le altre federazioni di Cisl, Uil, Ugl e vari sindacati autonomi – riguardante oltre trecentomila lavoratori. Questi i contenuti più importanti:
     – Vigenza, anche per la parte economica, di 4 anni: un anno in più rispetto ai tre anni del precedente contratto, ancora utilizzati negli altri contratti di categoria e che già erano stati un peggioramento rispetto ai due anni utilizzati nei rinnovi contrattuali fino al 2009, quando questo cambiamento fu introdotto dall’accordo interconfederale fra Cisl, Uil e Confindustria, non firmato dalla Cgil che poi lo ha invece accettato completamente e, come si vede, peggiorato; inoltre questo cambiamento ha rappresentato in sé già una modifica dell’assetto contrattuale generale riguardo la quale il direttivo confederale di un mese prima aveva escluso per il momento di intraprendere una trattativa;
     – 85 euro di aumento medi e lordi come per il commercio ma distribuiti su 4 anni invece che su tre;
     – Per i nuovi assunti nessuna norma di tutela dal Jobs Act

Chimico-farmaceutico

Il 15 ottobre 2015 Filctem Cgil, Femca Cisl e Uiltec Uil hanno firmato il rinnovo del contratto dei settori chimico, farmaceutico, abrasivi, lubrificanti e GPL, che riguarda circa 170 mila lavoratori.

Federchimica e Farmindustria avevano avuto la strafottenza di richiedere persino la restituzione di parte del salario (79 euro), sulla base di quanto affermato a maggio da Confindustria, secondo la quale, a causa dello stato generale dell’economia sull’orlo della deflazione, gli incrementi salariali dell’ultimo triennio stabiliti dai precedenti contratti erano stati eccessivi. Tanta arroganza non era finalizzata ad ottenere davvero questo obiettivo, almeno per ora, ma doveva servire, com’è infatti servita, a dar la giustificazione ai sindacati di regime per accettare aumenti salariali di minima entità, cantando pure vittoria per aver scongiurato la “restituzione del salario”!

Nei chimici le federazioni di Cgil, Cisl e Uil – Filctem, Femca e Uiltec – da anni si distinguono per fare da apripista alle peggiori innovazioni antioperaie. Questa volta volta il contratto è stato firmato dopo una trattativa durata solo 24 ore e senza una sola ora di sciopero. Questi i punti maggiormente degni di nota:
     – rinuncia all’ultima rata dell’aumento previsto dal contratto precedente (2012-2015), trasformata in EDR (una quota del salario base introdotta con l’eliminazione della scala mobile nel 1992), che poi sarà eliminata a fine 2016;
     – rate dell’aumento che partiranno dal 2017, dunque congelate per il 2016, e che saranno sottoposte alla verifica annuale dell’effettiva corrispondenza con l’inflazione, con possibilità di riduzione o eliminazione;
     – corsi di “cultura aziendale”, fatti dall’azienda, ai delegati RSU!
     – inasprimento delle sanzioni disciplinari;
     – trasformazione del premio presenza da fisso e “nazionale” a variabile, in quanto legato ad accordi aziendali sulla produttività;
     – eliminazione degli scatti di anzianità dal conteggio del TFR;
     – infine, secondo quanto correttamente affermato dal presidente di Federchimica: «Il nuovo contratto di lavoro del settore chimico-farmaceutico non contiene disposizioni che derogano alla disciplina del Jobs Act».

Gomma-plastica

Sulla falsariga di quello chimico-farmaceutico di cui un tempo faceva parte, sempre dalla Filctem Cgil e dalle federazioni di Cisl e Uil, il 10 dicembre, dopo due giorni di trattativa e senza un’ora di sciopero, è stato siglato il contratto 2016-2018 per il settore gomma-plastica, che riguarda circa 140.000 lavoratori:
     – il rinnovo precedente era avvenuto dopo 20 ore di sciopero e si era chiuso con un aumento di 124 euro lordi; questo con un aumento medio di 76 euro lordi, congelato per il 2016, con prima rata dal 2017;
     – le aziende in crisi potranno far slittare di ulteriori tre mesi la seconda misera rata di aumento del 2018;
     – come per il contratto chimico-farmaceutico anche questo sottopone le rate dell’aumento a verifiche annuali con eventuale loro riduzione o congelamento;
     – viene incrementata l’aliquota del “fondo gomma-plastica”;
     – i contratti a tempo determinato e quelli somministrati possono passare dal 25% al 32%; un aumento della precarietà che, sommato al Jobs Act, porterà le aziende a poter avere più lavoratori precari che stabili.

Autoferrotranvieri  

Il 28 novembre Filt Cgil, Fit Cisl, Uiltrasporti, Faisa Cisal e Ugl Fna hanno firmato il rinnovo del contratto nazionale degli autoferrotranvieri riguardante circa 116 mila lavoratori e scaduto da ben otto anni, dal 31 dicembre 2007:
     – 100 euro lordi medi di aumento;
     – aumento dell’orario di lavoro e della flessibilità: orario medio settimanale di 39 ore calcolato nell’arco di 26 settimane invece delle precedenti 17, con limite massimo settimanale portato a 50 ore; ogni tranviere potrà lavorare 13 ore in più per ogni ciclo;
     – aumento dello straordinario, anche obbligatorio, al limite annuo a 300 ore;
     – nessuna deroga protettiva del lavoratore al Jobs Act;
     – istituzione di due enti bilaterali: Fondo di Solidarietà e TPL Salute;
     – aumento del finanziamento del fondo previdenziale integrativo mediante l’iscrizione coatta.

L’ipotesi di rinnovo è stata sottoposta a referendum. I voti contrari hanno prevalso in importanti città quali a Roma, Milano, Bologna, Modena, Reggio Emilia e Parma – il 48% in Emilia Romagna – e in tutta la Toscana. Robuste minoranze contrarie vi sono state a Genova, Venezia e Napoli. Ma sul piano nazionale il nuovo contratto è stato approvato con il 64,89% di voti a favore. Valgono le considerazioni qui poco sopra fatte: se i lavoratori contrari fossero stati in sciopero “selvaggio” ciò avrebbe opposto un forte ostacolo alla nuova vittoria padronale. In quanto “voti” non sono serviti a nulla, affogati nel mare dei lavoratori più intimoriti, di quelli dei centri minori della provincia disabituati alla lotta e dei settori impiegatizi.

Alimentaristi

Il 5 febbraio 2016, dopo aver revocato lo sciopero generale della categoria previsto per il 29 gennaio, Flai-Cgil, Fai-Cisl e Uila-Uil hanno firmato il contratto per i circa 400 mila lavoratori dell’industria alimentare; questi i punti principali:
     – durata del contratto portata da tre a quattro anni, come per i bancari;
    – la Flai Cgil ha sbandierato un aumento medio di 105 euro lordi; lo scorso rinnovo contrattuale aveva ottenuto 126 euro per una vigenza contrattuale di 36 mesi contro gli attuali 48: il 41% in meno;
    – «Le parti convengono sul principio di non sovrapponibilità tra istituti ed i relativi costi della contrattazione nazionale e quelli propri della contrattazione aziendale»: un modo per mettere le mani avanti e tagliare la parte di salario contrattata in azienda;
    – congelamento dei contratti aziendali e territoriali in scadenza tra il 1° dicembre 2015 e il 31 dicembre 2017 per ulteriori 12 mesi;
    – 16 ore in più di flessibilità dell’orario di lavoro (da 72 a 88) e un aumento del 50% del periodo di calcolo dell’orario plurisettimanale che arriva così a sei mesi;
    – incremento del contributo al fondo Fasa, per l’assistenza sanitaria integrativa e creazione di un nuovo ente bilaterale per licenziati e trasformazioni volontarie in par-time.

Igiene ambientale

Il 10 luglio scorso è stato siglata da Fp Cgil, Fit Cisl, Uil Trasporti e Fiadel l’ipotesi di rinnovo per il contratto dei netturbini – scaduto il 31 dicembre 2012 – che lavorano nelle aziende pubbliche dell’igiene ambientale aderenti a Utilitalia: circa 50 mila lavoratori. Lo sciopero nazionale previsto per il 13 e 14 luglio è stato così revocato. Sarebbe stato il terzo dopo quelli del 30 maggio e del 15 giugno. Questi i punti salienti del contratto:
     – aumento salariale, a regime (da dicembre 2018!), di 120 euro lordi, al livello medio 3A (parametro 130,07), di cui 30 destinati però a finanziare i fondi previdenziali e sanitari integrativi, un fondo di solidarietà per gli esuberi e il fondo salute e sicurezza;
     – 30 mesi di ritardo nel rinnovo compensati con 200 euro lordi (6,6 euro lordi al mese; inferiore alla vacanza contrattuale del pubblico impiego, di 11,7 euro);
     – aumento dell’orario di lavoro settimanale da 36 a 38 ore, avvicinando così le condizioni al contratto multiservizi (40 ore) applicati ai lavoratori che operano nelle cooperative cui sempre più sono appaltate parti del servizio di raccolta rifiuti;
     – aumento delle ore di straordinario da 50 a 150 e pagate con maggiorazione ridotta;
     – creazione di un nuovo livello professionale “S” sotto l’attuale livello 1°, a parametro 90, per i neoassunti;
     – si dichiara la volontà di rivedere, ovviamente in peggio, il regolamento sullo sciopero.

Infine, due giorni dopo, il 12 luglio, Fp Cgil, Fit Cisl, Uil Trasporti e Fiadel, hanno firmato, sulla falsariga di quello per le aziende pubbliche, un protocollo d’intesa per il rinnovo del contratto applicato dalle aziende d’igiene urbana private, aderenti ad Fise-Assoambiente (aderente a Confindustria), riguardante circa 40 mila lavoratori. Da segnalare l’introduzione di ben due nuovi livelli inferiori a parametri 80 e 88,38.