Si levi potente la lotta di classe proletaria contro la mascheratura ideologica delle politiche identitarie
Categorie: Identity Politics, Opportunism, USA
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È notizia che, negli ultimi mesi, ha fatto grande scalpore, sia da una parte che dall’altra dell’Atlantico, la decisione del neo insediato governo Trump di cancellare, a livello federale, i cosiddetti programmi DEI, ovvero quei programmi e politiche sul luogo di lavoro incentrati sui concetti piuttosto vaghi di “Diversità”, “Equità” ed “Inclusione”. Tradotti in soldoni, parliamo di quelle direttive atte a promuovere quote “rosa”, “nere”, “arcobaleno” nelle aziende e nelle istituzioni di vario tipo, ma anche corsi di training professionale per “sensibilizzare” la manodopera su alcune “delicate” tematiche ecc., il tutto, appunto, in nome di diversità e… inclusione in materia di genere, razza, orientamento sessuale e così via. Stando ad anni di meschina retorica, l’obiettivo sarebbe stato quello di garantire un giusto ed equo trattamento nei confronti di quei “gruppi” storicamente discriminati o sottorappresentati in alcuni settori del mondo del lavoro a stelle e strisce.
Una prima origine per questi programmi può essere datata al Civil Rights Act del 1964, che aboliva (molto timidamente anche solo a parole) qualsiasi tipo di discriminazione basata su razza, religione, orientamento sessuale ecc. sul posto di lavoro; la risposta alle nuove direttive del governo trumpiano vede oggi decine e decine di aziende (Google, Amazon, Meta, Disney, GE, Intel, PayPal, Morgan Stanley — giusto per nominarne alcune) cambiare o fare marcia indietro rispetto ai programmi che da anni a questa parte si erano impegnati a seguire, a differenze di altre, quali Apple, Microsoft, Costco, le quali sembrano essere intenzionate a proseguirli. Inutile dirlo, il colpo di coda (o presunto tale) trumpiano ha suscitato una forte opposizione nei salotti di democratici ed affini: L’American Civil Liberties Union (Unione Americana per le Libertà Civili, un’organizzazione non governativa a difesa dei diritti civili e delle libertà individuali) ha definito quello del nuovo governo “un approccio che ha rovesciato la linea federale bipartisan di lunga data, la quale era volta ad aprire porte che erano state ingiustamente chiuse”.
Certamente, quando sia da una parte che dall’altra del campo borghese si fa chiasso sul tema, ad esempio, non ci si riferisce certo alle poco diverse, eque ed inclusive campagne americane, dove la stragrande maggioranza della forza-lavoro è rappresentata dalle sole, enormi schiere di super-sfruttati braccianti di origine messicana. Se nella svolta anti-DEI è da un lato possibile individuare l’intenzione da parte di alcune aziende di rimettere in discussione, almeno per il momento, “politiche sul personale” non ritenute nei loro migliori interessi – esacerbando la competizione all’interno dell’azienda, per incrementare lo sfruttamento della forza-lavoro, ma anche al fine di presentare agli investitori un quadro aziendale in linea con le direttive governative – l’“assetto” complessivo del mondo del lavoro americano subirà conseguenze marginali, per non dire per nulla o quasi rilevanti nei settori peggio pagati, dal dietrofront in materia di DEI. Nulla di più: d’altronde, la natura oggettiva dell’oppressione capitalista, è stata, è e sempre sarà l’oppressione di una classe sull’altra, che non è questione di DEI o slogan simili.
Invece, vale la pena spendere due parole sulla pattumiera che è il campo della retorica borghese – veleno per il proletariato – oggi sempre più disseminato di riferimenti identitari di ogni tipo. Le fazioni partecipanti al macabro dibattito si accusano a vicenda: razzismo, misoginia, omofobia da una parte, razzismo alla rovescia, misandria etc. dall’altra. In atto è il gioco delle parti, l’antico mantra del divide et impera, il cui obiettivo ultimo è agevolare la sopravvivenza del modo di produzione capitalista, la conservazione del dominio di classe della borghesia sul proletariato. Al fine dell’assoggettamento di quest’ultimo agli interessi dell’economia nazionale e dunque della borghesia, compito ultimo dell’opportunismo, e del mantenimento della pace sociale, la classe dominante sa che deve anche servirsi della possibilità di “concedere” “libertà” democratiche e civili – che sempre può in un secondo momento mettere in discussione – e di applicare politiche di “integrazione” della forza-lavoro. Essa ha iniziato a promuovere, dalle scuole agli stadi, anche iniziative morali a favore di integrazione ed inclusività scimmiottando la più vuota demagogia antirazzista, in un contesto capitalistico maturo dove la rete di interessi ha carattere invece sempre più mondiale, e pretende di celebrare mille usi e costumi “stranieri” mentre allarga i suoi affari e i suoi stili di vita: d’altronde, ai fini dello svolgimento dei processi propri della produzione capitalista e dell’accumulazione del capitale colore della pelle e passaporto sono elementi poco incidenti. Ma l’aspirazione del riformismo non può che fermarsi alla mera intermediazione culturale, che in ogni caso resta un’impossibilità per la società borghese. Quest’ultima, infatti, necessariamente ha bisogno anche di potersi servire della guerra fratricida tra gli sfruttati, e sa come esacerbarla ai fini di ostacolare la maturazione del fronte di classe ma anche agire sui salari, avendo sempre come obiettivo ultimo la conservazione dei vigenti rapporti di produzione. Bianchi e neri, autoctoni ed immigrati, uomini e donne, eterosessuali e omosessuali: la classe borghese, facendo convenientemente pendere, in base alle esigenze determinate dalla continuità storica, la bilancia o verso l’inclusività “progressista” o il bigottismo “nazional-popolare”, in ogni caso sempre produce e riproduce le linee di divisione interne al proletariato (che ogni campo borghese riconosce) che siano esse emerse in seno alla società capitalista oppure ereditate da forme storiche ormai arretrate, che la borghesia, un tempo rivoluzionaria, aveva promesso di relegare nei fondali della storia.
Oggi più che mai, con l’inesorabile maturare delle contraddizioni sociali e l’avanzamento della crisi capitalistica, ogni schieramento del fronte borghese si è mosso per inculcare nel proletariato politiche identitarie ed è impegnato nell’inquadrare i lavoratori nei diversi blocchi e movimenti interclassisti per razza, genere o orientamento sessuale.
Negli Stati Uniti, statistiche alla mano, se consideriamo le principali testate giornalistiche, il numero di articoli o notizie dedicati – o che fanno comunque riferimento – a questioni di razza, genere, orientamento sessuale ecc. ha visto un impressionante aumento (in molti casi è possibile distinguere un andamento quasi esponenziale) a partire dall’inizio del decennio scorso, sviluppando un mostruoso, ormai tanto diffuso quanto irreversibile, modello di profitto basato anche sulla vendita coatta della pubblicità attraverso il traffico internet generato da titoli acchiappa-citrulli e sparate al di fuori di ogni logica. Ma non c’è da sorprendersi: l’alleggerirsi della presa sul proletariato del millantato “cambiamento” e potenziamento dello stato sociale del primo mandato Obama, nonché l’avvicinarsi della campagna elettorale in preparazione del seguente, ma sopra ogni cosa, lo scossone provocato dalla pesantissima crisi del 2008, hanno portato la borghesia americana e i suoi lacchè a dover attingere sempre più spesso dal bagaglio della miseria “identitaria” per favorire l’ottundimento dei lavoratori e scongiurare sul nascere una più significativa ripresa della lotta di classe. Nel 2020, dopo le diffuse proteste seguite al disgraziato omicidio di George Floyd, molte delle aziende che oggi ritirano i vari programmi DEI, ne facevano allora grande sfoggio, altre ne promettevano l’introduzione.
La borghesia afroamericana, che da decenni si muove per mobilitare il proletariato nero, sotto l’inganno dell’unità di razza, del razzismo alla rovescia e delle “identity politics” per accrescere la sua influenza all’interno del Partito Democratico, aveva immediatamente colto la palla al balzo spingendo sul terreno della preparazione allo “scontro” elettorale le proteste di piazza.
Oggi, l’amministrazione trumpiana, facendo leva sugli ormai incancreniti e marci pregiudizi razziali e sessisti tanto quanto sul disperato mantra del “si salvi chi può”, vuole illudere il lavoratore bianco raccontandogli la favola che lui tornerà ad essere tanto “grande” quanto era “grande” l’America quando gli altri operai bianchi come lui ancora godevano di salari, servizi e benefici significativamente superiori rispetto ai suoi fratelli e alle sue sorelle di classe di altro colore.
Ma i comunisti non inorridiscono, e tantomeno si sorprendono, davanti alle menzogne dei burattini del capitale, perché consapevoli che “la vera lotta della classe operaia va a coincidere con la difesa della sua parte più debole” e che solo così “i lavoratori relativamente meno sfruttati tutelano innanzitutto se stessi dalla concorrenza al ribasso dei loro fratelli di classe più ricattabili”. Ma soprattutto noi comunisti – organizzati nel Partito Internazionale del proletariato che fra le sue fila non conosce alcuna divisione essendo i suoi militanti comunisti e basta, senza alcuna altra specificazione né di razza, né di genere o orientamento sessuale – siamo consapevoli che solo attraverso l’unificazione per il fronte unico di classe, al di là di qualsiasi barriera e retorica “identitaria”, nazionalista e guerrafondaia, potrà la classe lavoratrice tornare sul cammino della lotta rivoluzionaria. Per, adempiere, finalmente, al suo compito storico: la società comunista, la quale anche sarà “il superamento e la sintesi delle antiche culture storiche dell’uomo in una forma superiore che le verrà tutte a negare”.