India, 9 luglio: un’imponente mobilitazione svuotata dalla direzione riformista
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Il rinvio del 20 maggio
Lo sciopero generale del 9 luglio 2025, che coinvolse centinaia di milioni di lavoratori in tutta l’India, era originariamente previsto per il 20 maggio. Il rinvio fu deciso dalla Joint Platform of Central Trade Unions and Federations (JPCTUF) a seguito dell'”Operazione Sindoor” del 7 maggio, l’attacco militare provocatorio del governo BJP contro il Pakistan che portò le due potenze nucleari rivali del Sud Asia sull’orlo di una guerra totale.
Questa capitolazione al fervore nazionalista anti-pakistano rafforzò la presa del governo Modi e favorì la sua agenda, sia di politica interna contro i lavoratori che quella esterna nel perseguimento dei suoi obiettivi predatori.
La struttura organizzativa: il dominio delle centrali staliniste
La JPCTUF comprende 10 organismi sindacali centrali e diverse federazioni settoriali. Tra le più grandi e politicamente influenti figurano le due principali federazioni sindacali guidate dagli stalinisti: il Centre of Indian Trade Unions (CITU), allineato con il Communist Party of India (Marxist), e l’All India Trade Union Congress (AITUC), affiliato al Communist Party of India.
Lo sciopero del 9 luglio è sorto come risposta diretta all’intensificazione dell’assalto di classe del governo Modi. I lavoratori hanno protestato contro l’allungamento della giornata lavorativa, la precarizzazione dei rapporti di lavoro, la privatizzazione, lo smantellamento dei servizi pubblici e una legislazione che renderebbe illegali la maggior parte degli scioperi introducendo nuovi impedimenti all’organizzazione sindacale.
Gli stalinisti hanno messo tutto l’accento sulla questione privatizzazioni, in una retorica volta a rappresentare tutta la storia recente del movimento sindacale indiano come una lotta contro la “svolta liberista” dell’India iniziata nel 1991, quando il governo Rao diede il via al processo di liberalizzazione.
Invece di mettere l’accento sull’allungamento della giornata lavorativa, che colpisce tutti i proletari indiani, questi ultra-opportunisti hanno chiamato alla mobilitazione soltanto i dipendenti pubblici, che costituiscono la base clientelare del proprio potere politico.
I lavoratori del settore privato che hanno aderito allo sciopero furono spinti da una giusta motivazione politica: la lotta contro l’estensione della giornata lavorativa dalle 8 alle 12 ore! Questa rivendicazione assume particolare significato se consideriamo che rappresenta un attacco diretto alla conquista storica delle otto ore, strappata dalla classe operaia internazionale attraverso decenni di sanguinose lotte.
L’altra rivendicazione che avrebbe potuto unificare la forza del proletariato indiano è la lotta per forti aumenti salariali. Del resto, la questione dell’inflazione e del deterioramento del potere di acquisto dei salari è emersa come preoccupazione centrale degli scioperanti.
Cronaca dello sciopero
Secondo gli organizzatori dello sciopero, 250 milioni di proletari avrebbero aderito come nel 2020. Lo sciopero ha coinvolto ampie sezioni della classe operaia, superando le divisioni religiose e castali incessantemente promosse dalla classe dominante e dai suoi rappresentanti politici. Ha interessato dipendenti pubblici, lavoratori dell’ancora estesa rete di imprese del settore pubblico indiano, quelli impiegati nelle industrie manifatturiere integrate globalmente come l’automotive e, in misura minore, i lavoratori del cosiddetto settore informale.
Le industrie come l’estrazione del carbone, la produzione di acciaio, i servizi bancari, i servizi postali e i trasporti pubblici sono state gravemente interrotte. Alcuni stabilimenti automobilistici, incluso uno stabilimento Ashok Leyland a Hosur, Tamil Nadu, hanno dovuto parzialmente chiudere; mentre altri, inclusi quelli di Maruti Suzuki e Hyundai, hanno dichiarato di aver affrontato alti livelli di “assenteismo” rallentando le velocità delle linee.
In Kerala, dove il governo statale è guidato dal Communist Party of India (Marxist), la vita quotidiana è stata paralizzata, nonostante la promessa del Ministro dei Trasporti statale che gli autobus della Kerala State Road Transport Corporation (KSRTC) avrebbero operato normalmente.
Nel West Bengal, dove il governo Trinamool Congress (TMC) aveva promesso di spezzare lo sciopero, ci sono stati scontri violenti in più distretti tra sostenitori dello sciopero e polizia e teppisti del TMC. Secondo i rapporti delle notizie, più di mille sostenitori dello sciopero sono stati arrestati. Un portavoce del TMC ha difeso la repressione statale, definendo lo sciopero “teppismo camuffato da protesta”.
Nel Gurgaon migliaia di lavoratori dei settori automobilistico, edile, bancario, sanitario e dell’assistenza all’infanzia hanno marciato dal Kamla Nehru Park all’ufficio postale e tenuto un comizio.
Nell’Assam i lavoratori delle piantagioni di tè hanno scioperato compatti e organizzato manifestazioni in tutto lo Stato.
Nel Tamil Nadu iI servizio di trasporto pubblico e auto-rickshaw è stato interrotto, specialmente a Chennai, la capitale e città più grande, e nei centri manifatturieri di Coimbatore e Tiruchirappalli. Numerose filiali bancarie e assicurative sono state chiuse, e la produzione automobilistica è stata interrotta.
Nel Jharkhand lo sciopero ha paralizzato tutte le operazioni della Central Coalfields Ltd. e Eastern Coalfields Ltd. Ha anche causato la chiusura dell’ufficio principale, tutte le 450 filiali e uffici regionali della Jharkhand State Gramin Bank, inclusi quelli nel vicino Bihar.
Nel Maharashtra le aziende automobilistiche, farmaceutiche e ingegneristiche hanno registrato una produzione ridotta a causa “dell’assenteismo” dei lavoratori, interruzioni alla produzione just-in-time e blackout. Nella parte occidentale dello Stato, lo sciopero dei lavoratori della Maharashtra State Electricity Distribution Company ha interrotto l’alimentazione elettrica ai cluster industriali.
Nel Uttar Pradesh, i servizi sono stati fermati o interrotti presso banche e uffici assicurativi in tutto lo Stato più popoloso dell’India. Inoltre, 270.000 lavoratori elettrici hanno abbandonato il lavoro per protestare contro l’imminente privatizzazione di due compagnie di distribuzione elettrica di proprietà del governo locale, PVVNL e DVVNL.
I servizi ferroviari generalmente non sono stati influenzati dallo sciopero, eccetto quando – come nel West Bengal, Odisha e Bihar – i manifestanti hanno occupato le linee ferroviarie. Questa distribuzione dell’impatto rivela i limiti strutturali del sindacalismo indiano, ancora concentrato nei settori statali e parastatali.
Il sostegno per lo sciopero è variato drasticamente per regione, riflettendo la diversa penetrazione delle organizzazioni sindacali e la diversa composizione di classe regionale. Le aree con maggiore concentrazione di settore pubblico hanno mostrato livelli di partecipazione superiori, mentre le regioni con economia più privatizzata hanno registrato adesioni inferiori.
Mai una rottura col nazionalismo
L’analisi del movimento sindacale indiano contemporaneo rivela una contraddizione fondamentale che caratterizza la fase attuale della lotta di classe nel subcontinente: la capacità di mobilitare centinaia di milioni di lavoratori si accompagna sistematicamente all’incapacità di fornire una direzione politica rivoluzionaria. Questa contraddizione non è casuale ma riflette la natura strutturalmente riformista delle leadership sindacali, integrate nel sistema capitalistico piuttosto che orientate alla sua trasformazione rivoluzionaria.
La subordinazione del movimento operaio indiano al nazionalismo borghese durante le crisi militari ha precedenti significativi che illuminano la natura delle organizzazioni sindacali. Durante la guerra di Kargil del 1999, le centrali sindacali sospesero le mobilitazioni programmate, allineandosi alla retorica nazionalista del governo Vajpayee. Similmente, dopo gli attacchi terroristici di Mumbai del 2008, la Joint Platform of Central Trade Unions rinviò lo sciopero generale previsto per dicembre, giustificando la decisione con la “necessità di unità nazionale”.
Più recentemente, durante la crisi di Pulwama-Balakot del febbraio 2019, le centrali sindacali evitarono sistematicamente ogni critica alle politiche militari del governo Modi, concentrando la loro opposizione esclusivamente sulle questioni economiche. Il comunicato della All India Trade Union Congress (AITUC) del 28 febbraio 2019 è emblematico: mentre denunciava dettagliatamente le “politiche anti-lavoratori”, ometteva completamente ogni riferimento alla escalation militare e ai suoi costi per la classe operaia.
Lo sciopero del 26 novembre 2020, che secondo le stime ufficiali coinvolse già oltre 250 milioni di lavoratori, rappresentò la più grande mobilitazione sindacale nella storia mondiale. Tuttavia, le rivendicazioni rimasero limitate a questioni economiche immediate, evitando sistematicamente ogni critica alle politiche imperialiste e militariste.
Il settore pubblico registrò tassi di adesione superiori al 70%, con particolare intensità nei servizi bancari, postali e ferroviari. La Reserve Bank of India stimò perdite economiche superiori a 3,5 miliardi di euro, principalmente concentrate nei settori statali e parastatali. Significativa fu la partecipazione dei lavoratori agricoli, organizzati attraverso le associazioni rurali affiliate alle centrali sindacali: oltre 200 milioni di lavoratori agricoli parteciparono alle manifestazioni, bloccando le principali arterie di comunicazione rurale.
Il settore privato mantenne invece livelli di adesione inferiori al 30%, rivelando i limiti dell’influenza sindacale nelle aree più dinamiche dell’accumulazione capitalistica. Questa distribuzione settoriale non è casuale ma riflette la natura parassitaria del sindacalismo indiano, concentrato nei settori statali e incapace di penetrare nelle aree strategiche dell’economia capitalistica moderna.
Rottura con l’opportunismo sindacale o paralisi permanente del movimento operaio
Non è la mancanza di forza a paralizzare il proletariato indiano, ma la sua direzione. Di fronte a un’enorme capacità di mobilitazione, le centrali sindacali hanno scelto la via della compatibilità col potere. Il 9 luglio ha mostrato un esercito pronto alla lotta, ma privo di comando. I bonzi sindacali hanno preferito evitare lo scontro durante la crisi militare, confermando la loro integrazione nella macchina statale borghese.
La separazione sistematica tra “questioni economiche” e “questioni politiche” non è un difetto contingente, ma la struttura stessa del sindacalismo opportunista. Il silenzio complice di fronte alla guerra e al nazionalismo non è un errore, ma una scelta strategica: mantenere il proletariato all’interno del campo della legalità borghese e del patriottismo costituzionale.
All’interno di questa strategia, la retorica contro le privatizzazioni assume un ruolo centrale nella conservazione dell’ordine capitalistico. I bonzi sindacali e i partiti della sinistra riformista denunciano le “svendite” del settore pubblico e chiedono il ritorno a una gestione statale dei servizi, presentata come “più giusta” o “pro-lavoratori”. Ma questa opposizione è ingannevole.
Lo Stato, gestore o privatizzatore, resta lo Stato della borghesia. Difendere l’impresa pubblica significa difendere un’altra forma dello stesso sfruttamento, sotto il controllo diretto dell’apparato statale. La proprietà pubblica dei mezzi di produzione, senza l’abbattimento del potere borghese, non è emancipazione: è capitalismo di stato.
Non esiste un capitalismo “cattivo” nelle mani dei privati e uno “buono” nelle mani dello Stato, che del resto mantiene i salari bassi e allunga la giornata lavorativa a 12 ore! Lo Stato non è mai neutrale: reprime, sfrutta, militarizza e si arma. I sindacati, anziché denunciare questa verità elementare, agiscono come garanti della pace sociale, chiedendo una migliore amministrazione del Capitale. Così facendo, vincolano la classe operaia alla sorte dell’economia nazionale e all’illusione riformista che il sistema possa essere corretto.
La classe operaia non difende lo Stato, né i suoi beni, né la sua economia. Difende solo se stessa, la propria autonomia e la propria organizzazione rivoluzionaria. Ogni lotta economica, inclusa quella contro le privatizzazioni, è sterile se non è subordinata alla distruzione dello Stato borghese e del modo di produzione capitalistico.
O la rottura con i bonzi, o la sterilizzazione permanente della lotta di classe
È necessario affermare con chiarezza: la classe operaia indiana non potrà avanzare finché resterà legata alle centrali sindacali esistenti e ai loro dirigenti opportunisti. Nessuna illusione democratista, nessuna retorica economicista può mascherare la realtà: i sindacati ufficiali sono diventati strumenti di contenimento del proletariato, non di sua emancipazione.
Occorre rompere. Rompere con le strutture sindacali compromesse, rompere con le direzioni opportuniste, rompere con i bonzi che parlano in nome dei lavoratori ma agiscono come garanti dell’ordine borghese. Solo così sarà possibile ricostruire, su basi internazionaliste e comuniste, una direzione politica degna della forza mostrata il 9 luglio.