Partito Comunista Internazionale

La crisi giapponese rompe l’incantesimo del carry trade

Categorie: Japan

Questo articolo è stato pubblicato in:

Traduzioni disponibili:

La grave crisi finanziaria giapponese ha superato da tempo il suo stadio preliminare, e sta venendo alla luce del sole attraverso le crepe lasciate aperte dall’imbarazzo dei media statali e degli investitori privati. Le caratteristiche e le implicazioni degli eventi che si sono succeduti dall’inizio di agosto hanno creato una situazione che non si ritiene possa essere risolta additando come unico capro espiatorio il governo. Anzi, ha piuttosto accelerato la caduta del governo Kishida. Quest’ultimo evento deve essere visto sulla scia della ricerca di una novità credibile per affrontare la crisi che si sta lentamente deteriorando. Ci sono alcuni aspetti che vanno messi in evidenza per spiegare la situazione da cui è scaturita questa instabilità finanziaria, spesso ritratta dai media come una tempesta passeggera, molto meno preoccupante dell’allarme tsunami, tale da non meritare nemmeno più il secondo o terzo posto nell’ordine delle notizie di un telegiornale.

Questi fattori, da considerare come precondizioni per l’effettivo sviluppo osservato nella finanza e nell’economia giapponese, possono essere suddivisi in due gruppi: il primo, risalente al luglio 2024; il secondo, più remoto, che è in atto almeno dalla prima metà del 2023.
A partire dal luglio il capitale aziendale e finanziario giapponese aveva visto svanire la certezza che il settore statale sarebbe stato in grado di riacquistare dal mercato l’intero ammontare del suo debito pubblico.

Veniva meno così un elemento di sostegno al processo di accumulazione in relazione ai suoi legami con la stabilità finanziaria, poiché fino ad allora la borghesia giapponese aveva potuto fare assegnamento sulla condizione preliminare per poter beneficiare della maggiore fiducia dei suoi investitori privati.
Questo sviluppo ha realmente compromesso la “segretezza pubblica” che circondava le operazioni portate avanti dalle istituzioni finanziarie giapponesi per mantenersi costantemente a galla nel mercato globale, esponendo per la prima volta alla luce del sole la sua falla decisiva. Questa consisteva in un diffuso e regolare ricorso alle operazioni di carry trade. Questo tipo di operazioni consiste nel prendere a prestito somme di denaro in paesi esteri dove i tassi di interesse sono più bassi, per investirle in altri paesi in cui grazie a tassi d’interesse più alti i rendimenti sarebbero stati maggiori: tutto ciò che promette di produrre profitti sostanziali in un secondo momento. I capitalisti giapponesi sono storicamente avvezzi a questo tipo di comportamento, la cui principale complice è stata la ferrea solidità dello yen che ne ha fatto a lungo un rifugio sicuro per molti investitori.

Per molti anni il Giappone non ha avuto un’inflazione significativa, il che ha significato una prolungata assenza del fattore principale che spinge tradizionalmente i banchieri centrali a decidere di aumentare i tassi di interesse. Il fenomeno dell’inflazione zero è stato a sua volta il portato dalla debolezza della crescita dell’economia nipponica e dello yen. I capitalisti giapponesi hanno sfruttato il tasso di interesse bassissimo (a volte addirittura negativo di 0,1 punti percentuali) per diventare la principale fonte di capitale a buon mercato per gli acquirenti interessati a investimenti speculativi, sia nel G7 che altrove.
Per coincidenza, il Giappone era anche considerato una “alternativa adeguata” per i capitalisti occidentali non disposti a investire nella Cina continentale.

Nel confronto tra il secondo trimestre del 2023 e quello del 2024, il PIL del Giappone è sceso dell’1,3% a causa di una domanda di beni di consumo debole, che ha fatto crollare in un colpo solo investimenti, e spesa delle famiglie. Quest’ultima, in particolare, ha continuato a scendere in tre dei quattro trimestri esaminati. Gli occhi degli economisti borghesi di tutto il mondo erano puntati sulla seconda metà dell’anno in corso, che nelle loro aspettative avrebbe visto un effetto dirompente sul rafforzamento della domanda interna, grazie alla debolezza della moneta e al contemporaneo miglioramento dei salari. Il vero “piatto forte” per i lavoratori non è stato che un misero aumento dopo la conclusione dello Shuntō, le trattative salariali di primavera.

La tanto preconizzata stabilità aveva due presupposti: il gabinetto Kishida ancora al potere e l’amministrazione Biden.

La realtà, invece, è stata molto più amara: le grigie prospettive per l’economia globale, dovute ai bassi saggi del profitto dell’industria e all’incertezza generata dai conflitti in corso che provocano forti oscillazioni sui prodotti energetici, hanno fatto saltare i piani di incremento dello sviluppo e degli investimenti nel Paese, privo di energia a basso costo e costretto ad acquistare gas naturale liquido persino dalla Federazione Russa. Questa situazione che rischia di portare nuovamente l’economia giapponese alla stagnazione, ribadisce la politica dei bassi tassi d’interesse e da parte di una borghesia impaludatasi nel parassitario maneggio del capitale fittizio, la quale utilizza il carry trade come strumento principale per ottenere grandi profitti senza fare praticamente nient’altro che generare soldi dai soldi stessi.

La spesa delle famiglie aveva già subito una forte contrazione su base annua del 6,3% a gennaio, con una successiva piccola contrazione su base annua osservata a maggio (1,8%). Le stime troppo ottimistiche sulla crescita dei salari reali (+4,7%) erano riuscite a persuadere gli osservatori esterni che la domanda delle famiglie era destinata ad aumentare nel breve termine grazie al “prevedibile” aumento del potere d’acquisto dei lavoratori. Ciò che era davvero “fuori dal radar” degli analisti economici è la necessità per una popolazione che invecchia, costretta a fare affidamento su un servizio sanitario pubblico in declino, e a puntare su piani pensionistici privati e di compensare la sua diffusa insicurezza sociale col risparmio. Il gabinetto Kishida si è trovato di fronte alla persistente carenza di lavoratori nel settore sanitario (medici, infermieri, assistenti agli anziani) e alla relativa debolezza dello yen che scoraggiava l’arrivo degli immigrati – soprattutto vietnamiti – che copriva la penuria di forza lavoro in molti settori.

Nel frattempo, la spesa per luce, acqua e combustibili è aumentata del 6,6% a maggio rispetto all’anno precedente e i prezzi dei prodotti alimentari sono saliti del 4,3%. D’altro canto, la diminuzione della spesa per la cultura e l’intrattenimento è crollata a -9,6% sempre su base annua.

Come se non bastasse, la prevista crescita dei salari si accompagna a un calo della produttività, che a sua volta lascia i consumatori nella posizione meno desiderabile: quella di pagare prezzi più alti per gli stessi servizi di prima, in modo da compensare le esigenze delle imprese di mantenere i loro margini di profitto sotto le continue pressioni inflazionistiche. L’indice dei prezzi all’importazione è intanto cresciuto del 6,9% su base annua a maggio. La debolezza dello yen è il fattore più esagerato dietro l’aumento dei prezzi dei beni importati ed è allo stesso tempo la fonte dell’elevato status finanziario e della ricchezza dei capitalisti giapponesi.

Poiché gli scambi di valuta non sono monitorati centralmente e direttamente dalle autorità, le dimensioni della pratica del carry trading rimangono di fatto sconosciute. La sua influenza è quindi più facilmente rilevabile alla luce del sole attraverso un’osservazione più attenta del mercato in cui opera chi ha preso capitali a prestito, piuttosto che del Paese in cui il prestito è stato erogato. Senza troppa sorpresa, tale mercato è quello statunitense: più precisamente, i titoli tecnologici al centro del NASDAQ. Gli investitori che guidano questi titoli sono abituati a comprare e vendere con denaro a buon mercato che, molto spesso, proviene dal Giappone. Sebbene tale abitudine si sia consolidata nel corso di tutta l’era dei tassi zero, è riemersa in modo più palese e diretto nell’attuale epoca della “febbre da chip” che corre sempre più in alto a Wall Street. In questi momenti, tuttavia, tali investitori non possono più confidare nel fatto che le istituzioni giapponesi non alzino i tassi di interesse.

La causa scatenante della crisi è stata, in effetti, la cattiva ricezione dei dati economici da parte di alcune Big Tech statunitensi nel primo venerdì di agosto, tra cui un’inquietante previsione sulla riduzione dei posti di lavoro. Quando, contemporaneamente, i mercati azionari statunitensi e giapponesi hanno riaperto lunedì 5 agosto, le loro performance hanno continuato a subire il peso della crisi, con l’indice della borsa giapponese Nikkei 225 che è crollato ai minimi dal 1987 con una perdita pari a -5,8% nella seduta di venerdì 2 agosto e -12,4% il lunedì 5. Per un rapido confronto, verranno esaminati anche gli indici statunitensi: l’S&P 500 è sceso del 3% negli stessi due giorni, mentre il NASDAQ Composite ha perso quasi il 5%, il Dow Jones Industrial Average ha perso almeno 1000 punti, con un calo del 2,6%. D’altro canto, l’indice VIX, che misura le aspettative di volatilità per il mese successivo, è letteralmente esploso. Altri indici di borsa incentrati sulla tecnologia, come l’ASX 200 australiano, il KOSPI della Corea del Sud e il Latex di Taiwan, hanno chiuso lunedì rispettivamente a -3-7%, -9% e 8,4%.

Questo andamento ha senso se si considera l’evento principale: la decisione della Bank of Japan (BoJ) di rendere più costoso lo yen, alzando ancora una volta i tassi. Per capire meglio dove si inserisce il ruolo del carry trading nell’equazione di questa crisi finanziaria, consideriamo la pratica non come un contratto tra singoli capitalisti, ma come una transazione interbancaria tra due partecipanti: una banca giapponese che offre un prestito in yen, un’altra banca estera e, infine, una terza parte, di solito un’altra banca o società finanziaria. La banca giapponese offrirebbe un prestito conveniente alla banca estera con una transazione transfrontaliera che – come abbiamo detto in precedenza – è un’operazione sul commercio di valuta, quindi soggetta a maggiore opacità rispetto a una transazione puramente finanziaria. Oltre a consentire una leva aggressiva sui profitti, questa pratica è spesso utilizzata anche per proteggere gli investitori da perdite ingenti, come quelle tutt’altro che rare del settore denominato fintech, dove rischi e guadagni sono spesso spettacolarmente elevati, entrambi nella stessa operazione.

Gli investitori giapponesi fanno inoltre abbondantemente affidamento sulle riserve estere, senza prestare attenzione alle potenziali catastrofi conseguenze anche catastrofiche che si nascondono in ogni cambiamento di politica della BoJ. Il cambiamento di strategia è stato messo in moto da quest’ultima proprio quando il fenomeno attualmente sotto la nostra attenzione era già diventato ingestibile, proprio come una palla di neve. I fondi pubblici, come il Government Pension Investment Fund, sono stati allocati in azioni e obbligazioni estere per circa la metà del loro valore (1.600 miliardi di dollari in totale). Questo fondo è presente nel mercato azionario statunitense, ma potrebbe esserne espulso se la BoJ decidesse di effettuare uno o più rialzi dei tassi di interesse. Gli investimenti internazionali netti degli investitori giapponesi ammontano a 487.000 miliardi di yen (3.400 miliardi di dollari). C’è da aggiungere che la BoJ ha puntato tutto sullo stesso paniere degli investimenti esteri di natura finanziaria. La ricerca di una soluzione a buon mercato per vendere il Giappone come mercato per il capitale di rischio ha avuto il costo di sollevare il coperchio di ciò che è al centro del capitalismo giapponese e della sua banca centrale. In assenza di osservazioni più significative, l’intero Stato giapponese può essere visto come una gigantesca centrale di carry trade a beneficio anche delle economie clienti. Un indicatore chiave di questa conclusione proviene da un parametro indiretto, i prestiti all’estero delle banche giapponesi, che possono essere monitorati attraverso i dati forniti dalla Banca dei Regolamenti Internazionali; a marzo hanno superato la soglia di 1.000 miliardi di dollari, con un forte aumento del 21% rispetto al 2021, e sono stati utilizzati come base per il calcolo dei prestiti all’estero.

In merito ai riflessi sindacali della crisi, il Rengo, cioè la più grande confederazione sindacale del paese, deve fare i conti con una situazione piuttosto complicata dopo la gestione disastrosa della trattativa sui salari. Adesso il Rengo deve difendere il “trionfo” di aver ottenuto un aumento del 5% dei salari medi pagati dalla grande industria, dal momento che Nippon Steel ltd, Toyota e altri hanno accettato di soddisfare parte delle richieste dei lavoratori e hanno deciso di aumentare i salari, nel caso di Nippon Steel ltd andando anche oltre quanto richiesto dal sindacato. Il problema si colloca al centro del funzionamento dell’economia secondo il modello di Kishida, a un passo da uno schema di riciclaggio di denaro, dove i salari sono stati aumentati a partire da uno yen debole come base della negoziazione. L’aumento dei tassi era già in vista, con tutte le parti coinvolte nei negoziati ovviamente consapevoli e in combutta tra loro contro i lavoratori. Questo risultato è difficile da difendere o da spiegare per i sindacati di punta del Giappone, che più probabilmente sfrutteranno il momento per lasciare che i sindacati più piccoli prendano l’iniziativa e falliscano miseramente nel tentativo di convincere le medie imprese (cioè quelle dove storicamente sono più presenti), ad aumentare i salari con i tassi attuali, l’inflazione e il valore dello yen del momento, per poi subire una perdita prevedibile in termini di potere d’acquisto, che rafforzerebbe ancora una volta il Rengo e renderebbe più facile il lavoro della classe borghese nell’intensificazione dello sfruttamento.